VIVERE CON IL TERRORISMO

Come resistere all'imbarbarimento

 

Lo sappiamo dall'11 settembre 2001. E gli attentati di Londra e di Sharm el Sheikh (dopo quelli di Madrid, Bali, Casablanca) ce l'hanno confermato: stiamo vivendo un periodo inedito, profondamente destabilizzante, particolarmente complesso, che metterà alla prova la capacità di resistenza delle nostre società. Sono quindi necessario alcune riflessioni.

1. Il terrorismo islamico durerà a lungo. Sarebbe pericoloso farsi qualsiasi illusione, come immaginare che la Francia sia al riparo dai terroristi. Non c'è diplomazia in grado di proteggere un paese occidentale da un'offensiva condotta in nome della lotta contro l'occidente. Perché quella dei gruppi di terroristi islamici è proprio una lotta contro le democrazie e ciò che rappresentano: libertà di costumi, materialismo, diritti delle donne, separazione tra spirituale e temporale. E il loro obiettivo è uccidere il maggior numero possibile di civili occidentali, americani o europei, a casa

loro o nei luoghi del turismo di massa. La carneficina può servire anche per punire o destabilizzare

un regime arabo musulmano accusato di atteggiamenti sacrileghi o di amicizie filoccidentali. Ma il nemico è sempre lo stesso: l'occidente dei Lumi. Sono i lumi che minacciano la società a cui loro aspirano e che vogliono imporre: un'organizzazione dittatoriale, autoritaria, che rifiuta di separare stato e moschea. La legge contro la riforma. La regola contro la vita.

2. Il terrorismo islamico non ha un'unica causa. Dietro le azioni di queste cellule autonome di giovani musulmani sunniti - cioè la generazione di terroristi che colpisce oggi - c'è una strana miscela di sentimenti che formano un cocktail esplosivo. L'occidente è ritenuto pericoloso perché seduce e attrae; è odiato perché suscita invidia; il suo potere è considerato illegittimo e umiliante da giovani per cui l'islam sunnita è la versione superiore, la più riuscita, dei monoteismi. Ma come si spiega il ritardo del mondo arabo musulmano, se questo è il depositario dell'ultima e della più perfetta tra le religioni rivelate? Il terrorismo che colpisce oggi non si comprende senza una riflessione - ancora tutta da fare – sui rapporti tra islam e modernità.

3. Il terrorismo islamico non si può ridurre ai conflitti regionali, dal Kashmir alla Palestina, dall'Afghanistan all'Iraq. Va detto che i sunniti dell'islam radicale mostrano un'indignazione selettiva: non hanno mai versato una lacrima per il martirio degli sciiti o dei curdi nell'Iraq di Saddam Hussein. Si sono interessati al conflitto arabo-israeliano solo indirettamente, come una delle giustificazioni a posteriori degli attentati dell'11 settembre. È vero però che nelle popolazioni tra cui sono reclutati i terroristi queste guerre alimentano la paranoia, le teorie del complotto e i complessi da stato d'assedio. Ma il terrorismo non si può ridurre a una reazione a queste situazioni. L'odio per l'occidente e per la democrazia è destinato a sopravvivere al ritiro da Gaza. Ogni progresso verso la soluzione di questi conflitti è un passo importante per la pace, ma per quanto sia auspicabile è solo una piccola parte della risposta.

4. La guerra in Iraq non è stata una risposta al terrorismo. Come avevano previsto gli europei, l'intervento militare statunitense in Iraq non ha fatto che esasperare il risentimento dei militanti islamici. Ha svolto il ruolo di "sergente reclutatore del terrorismo", come si legge nell'ultimo rapporto dell'istituto di ricerca indipendente Chatham house. In buona parte del mondo arabo musulmano ha rafforzato l'avversione per gli Stati Uniti e funge da pretesto. Ma c'è di peggio: nel mondo della globalizzazione delle immagini, la responsabilità di ogni strage provocata a Baghdad da un'auto imbottita di esplosivo non è attribuita a questo o quel gruppo della ribellione sunnita: è imputata all'occupazione americana e considerata una prova supplementare della "guerra" che l'occidente condurrebbe contro il mondo musulmano. Centinaia di milioni di telespettatori musulmani ritengono gli Stati Uniti responsabili delle carneficine che avvengono quotidianamente in Iraq. Si può discutere la validità del ragionamento, ma non si può ignorare questa percezione dominante. In questo senso è vano, da parte di Tony Blair, negare l'evidenza: il legame tra gli attentati di Londra e il coinvolgimento britannico a fianco di George W. Bush è molto probabile. Sarebbe però pericoloso trarne la conclusione che l'unica via sia il ritiro. Se è vero che statunitensi e britannici hanno invaso l'Iraq per motivi sbagliati, ormai hanno il dovere di accompagnare la nascita di un futuro democratico per quel paese. Compito che richiederà sforzi lunghi, pazienti e dolorosi.

5. Gli occidentali non hanno tutte le risposte. Certamente gli occidentali possono e devono impegnarsi di più nella soluzione dei conflitti regionali, integrare meglio le minoranze musulmane e prendere le distanze da regimi a lungo considerati amici e che invece frenano le riforme nel mondo arabo musulmano. Ma non hanno in mano tutte le soluzioni: la battaglia contro l'estremismo islamico si svolge all'interno del mondo arabo musulmano. È la battaglia contro i regimi autocratici e dittatoriali, quella degli imam riformatori contro i fondamentalisti, dei sostenitori del compromesso contro quelli della purezza. Sono evoluzioni lente, purtroppo, ma decisive.

6. La lotta contro il terrorismo islamico non è una guerra. Questa espressione è diventata di moda. Ormai non si parla più di terza ma di quarta guerra mondiale. È un'espressione infelice e pericolosa. Una guerra, infatti, si conclude con la resa di uno dei belligeranti, oppure con un trattato. Non sarà così nella lotta contro il terrorismo islamico, che richiede una risposta multiforme, diplomatica (nei conflitti regionali), di polizia (infiltrazione e sorveglianza delle reti) e soprattutto ideologica (sostegno ai riformatori, dall'Arabia Saudita al Pakistan). Perché quelli che mettono le bombe rivendicando l'etichetta di al Qaeda operano incellule autonome e verosimilmente non obbediscono a nessun "cen- tro". Al Qaeda non è un'organizzazione, tanto meno uno stato, ma un "marchio" che loro usano.

7. L'odio riguarda l'Europa forse più degli Stati Uniti. Questa realtà era chiara già dall'11 settembre, anche se certi settori dell'opinione pubblica hanno avuto e continuano ad avere molte difficoltà a solidarizzare, in questa lotta, con gli statunitensi. Perché quest'odio nasce in Europa. Ai primi militanti di al Qaeda, nati dalla guerriglia contro l'armata sovietica in Afghanistan nei primi anni ottanta, ha fatto seguito un'altra generazione. Lo studioso Olivier Roy li definisce "i deterritorializzati": sono "nomadi, prodotti della globalizzazione", e provengono dalle fila dell'immigrazione europea. È in Europa e non altrove - in Maghreb o in Pakistan - che scoprono o riscoprono l'islam, se ne confezionano una versione semplicistica e ultraradicale e diventano, nel loro assurdo linguaggio, dei "buoni musulmani" cioè dei "bravi combattenti". È in Europa che vorrebbero approfondire le linee di frattura che isolano alcune minoranze musulmane. L'obiettivo dei terroristi è l'islamofobia: se prende piede, avranno realizzato la loro ambizione di creare un conflitto di civiltà e diffonderlo nel vecchio continente.

8. Sono in discussione, qui e ora, i nostri "modi di vita". Per molti versi siamo di fronte a un terrorismo endogeno. Abbondano le testimonianze sui giovani che, nati nelle nostre città, scivolano impercettibilmente nell'irreparabile. Dobbiamo essere sempre più consapevoli che questa lotta interna al mondo musulmano si combatte nelle città della nostra Europa e svolge opera di reclutamento tra i nostri giovani. L'interrogativo che si pone è quello della pedagogia della modernità, evidentemente insufficiente o insoddisfacente. Come fare, dato che le nostre strutture scolastiche producono tanti emarginati, a combattere l'influenza di  chi sostiene che l'integrazione è soltanto tempo perso, rispetto a una "verità" che sta altrove? Ciascuno, in ogni caso, deve prendere atto che non ci sarà salvezza al di fuori della modernizzazione.

9. L'epicentro è in Pakistan. Come aveva evidenziato l'inchiesta di Bernard-Henry Lévy sull'assassinio del giornalista americano Daniel Pearl, e come mostrano ogni giorno i reportage dalla regione, il Pakistan è un gran calderone e al tempo stesso una sorta di grande fabbrica di combattenti per la guerra santa. È dal Pakistan che si irradia l'ideologia più radicale. È qui che le più temibili organizzazioni salafitete tengono banco e che si costruiscono armi nucleari. L'aver preso come bersaglio l'Iraq, invece di preoccuparsi del Pakistan, è uno dei tanti errori del governo Bush.

10. Resistere alla minaccia costante della regressione. Nella battaglia contro il terrorismo niente sarebbe più sbagliato che rinnegare i nostri valori. Cioè limitare le libertà, rinnegare i diritti dei prigionieri, praticare la tortura o la detenzione senzaprocesso. Scrive Pierre Hassner: "La dialettica del terrorismo e dell'antiterrorismo su scala mondiale, a cominciare dagli attentati dell'11 settembre e dalla 'guerra al terrorismo' di George W. Bush, rischia di iscriversi nella versione catastrofica di quella che abbiamo chiamato la 'dialettica tra borghese e barbaro'. Se la modernità è stata una colossale impresa di imborghesimento del barbaro, può anche produrre il movimento inverso: l'imbarbarimento del borghese" per reazione al terrorismo. Dobbiamo stare molto attenti a non cedere mai a questa tentazione.

 

Jean-Marie Colombani

 

Le Monde di domenica 17 luglio 2005

 

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