Se l’Ssn è la somma dei Ssr…
La situazione attuale della sanità nel nostro Paese appare contraddistinta da notevoli elementi di criticità che nel loro insieme rendono assai complesso il governo del sistema, sia per la parte di competenza nazionale sia, a livello periferico, per la parte di competenza delle singole Regioni. In termini generali tali criticità si possono riassumere nei seguenti elementi fondamentali:
1. livelli differenti di
organizzazione sul territorio, cui corrispondono differenti capacità erogative
dei livelli essenziali di assistenza, così come definiti dal Dpcm del 29
novembre 2001;
2. discrepanza tra il livello delle
risorse stanziate dall’accordo Stato-Regioni dell’8 agosto 2001 (81.275 milioni
di euro per il finanziamento del Ssn per l’anno 2004) e l’onere che realmente
le Regioni sostegono per garantire l’erogazione dei livelli stessi;
3. scarsa capacità del sistema, nel
suo complesso, di scambiare informazioni omogenee e adeguate a garantire un
efficace sistema di governo;
4. modesta capacità di trasferire, in
tempi congrui, le conoscenze derivanti dalla ricerca scientifica nel campo
clinico;
5. eccesso di utilizzo delle strutture
ospedaliere per acuti, cui si contrappone una ancor debole e, in taluni casi,
non del tutto definita, rete assistenziale territoriale. A questa situazione
corrisponde una eccessiva frammentazione dei centri di
alta specializzazione e una loro disomogenea distribuzione sul territorio
nazionale, con effetti spesso non positivi sul complesso della mobilità
interregionale e, per alcuni versi, internazionale.
Tutto ciò premesso, non si può non considerare il fatto che nel corso dell’ultimo biennio, nonostante le difficoltà contingenti e strutturali, si è venuta a stabilire – al di là dei differenti ruoli e delle legittime posizioni dei vari schieramenti politici – una convergenza importante tra lo Stato e le Regioni su alcuni grandi obiettivi strategici: convergenza che crea i presupposti, se non della soluzione di tutti gli elementi di criticità, almeno per una impostazione di ipotesi di soluzione. Ci troviamo ancora lontani da una soluzione “di sistema” che nel rispetto delle identità regionali fortemente volute dalla riforma del titolo V della Costituzione (Legge costituzionale n. 3 del 18/10/2001) consenta di esprimere elementi di sostanziale ottimismo, ma anche per il forte impegno delle Regioni alcuni elementi di riflessione comuni, unitamente ad alcune iniziative condivise, consentono di fare un tentativo di impostazione dei “fondamentali” su cui basare il superamento delle criticità precedentemente accennate.
Si tratta certamente di uno dei nodi centrali: l’attuale livello di finanziamento appare decisamente non in grado di soddisfare il fabbisogno assistenziale del Paese. Non si può nascondere l’esistenza di un “gap”, il cui ordine di grandezza potrebbe essere stimato tra i 5 e i 6 punti percentuali (pari quindi a circa 4-5 miliardi di euro l’anno) tra le risorse destinate dallo Stato e i livelli di assistenza da erogare. Tale differenza è solo in parte copribile con l’autonoma capacità di imposizione fiscale delle Regioni che, come è noto, è limitata per legge e che se esercitata nei termini attuali potrebbe forse consentire di raggiungere un livello pari a circa il 40-50 per cento di tale cifra. Non si può peraltro sottacere il fatto che questo strumento appare comunque fortemente indebolito dall’attuale contesto di “stallo” in cui giace il modello del federalismo fiscale: assegnare alle Regioni la titolarità della responsabilità della gestione del sistema sanitario senza contestualmente affidare loro una adeguata autonomia impositiva appare elemento di forte limitazione nelle oggettive capacità di governo. La discrepanza tra le risorse a disposizione e la necessità di mantenere un livello di assistenza essenziale omogeneo per tutte le Regioni costituisce dunque una vera e propria difficoltà “strutturale” cui è necessario far fronte in qualche maniera. Uno degli strumenti possibili, e su cui sarà utile fare una accurata riflessione, è, con ogni probabilità, una revisione del nostro modello di welfare. Come è noto, l’Italia investe in sanità pubblica circa un punto percentuale in meno del Pil rispetto alla media degli altri Paesi dell’Unione europea, mentre investe circa 2 punti percentuali in più nel campo della previdenza. E’ insomma possibile che sia opportuno effettuare in questo campo un ripensamento complessivo. Il mantenimento di omogenei livelli essenziali di assistenza è una necessità che travalica i confini dei modelli regionali. I costi di tale assistenza tendono a lievitare in genere assai più velocemente del tasso inflativo (l’aumento per lo scorso anno 2003 è generalmente stimato intorno al 6/7% medio) vuoi per motivi economici di ordine generale, vuoi per l’introduzione di sempre più avanzati modelli assistenziali e di cura che, se da un lato producono risultati notevoli, dall’altro rendono il sistema sempre più costoso a parità di prestazioni erogate poiché aumentano i costi delle prestazioni in particolare di quelle ad alta specializzazione: pensiamo, ad esempio, all’attività trapiantologia che è un’attività notoriamente ad alto costo e i cui volumi generali sono aumentati di oltre il 30% negli ultimi 4 anni. Ancora, si rifletta sull’introduzione oramai diffusa nella diagnostica per immagini, di indagini sempre più raffinate e pertanto irrinunciabili dal punto di vista della pratica clinica quali la risonanza magnetica e la tomografia ad emissione di positroni (Pet), ma il cui costo in termini di investimento iniziale di esercizio e di manutenzione è straordinariamente più elevato rispetto agli strumenti ancora dominanti nella seconda metà degli anni ’90 (Tac, ecografia, radiologia tradizionale) che avevano costi d’impianto e di esercizio decisamente più contenuti.
Se il problema dei livelli
di finanziamento costituisce uno dei nodi essenziali in grado di ipotecare
seriamente il funzionamento globale del sistema, il
problema dei modelli organizzativi non può essere considerato secondario. La
capacità di un moderno Sistema sanitario di saper dare
risposte essenziali che siano al passo
con i tempi e che garantiscano i bisogni di salute è direttamente proporzionale
anche al sistema gestionale adottato. Pur nel rispetto delle autonomie regionali,
i modelli organizzativi debbono rispondere ad alcuni
criteri omogenei di fondo. In primo luogo essi debbono
essere in grado di razionalizzare le risorse. Se, infatti, una parte importante
del disavanzo economico può essese ascritto, come già detto, al “gap”
strutturale esistente tra finanziamento disponibile e assistenza erogata,
un’altra parte del medesimo disavanzo va individuata nelle “dispersioni” di sistema. La razionalizzazione delle risorse, che solo modelli organizzativi avanzati e flessibili sono in
grado di garantire, è uno degli elementi da perseguire. Vi sono diversi
percorsi per perseguire questo obiettivo. La
razionalizzazione delle reti ospedaliere per acuti è uno di questi percorsi.
L’esperienza di questi ultimi annio ci insegna però
che, in quest’ambito, il sistema, più che governare la realtà è permanentemente
alla rincorsa della realtà.
La riduzione complessiva dei
posti letto per acuti, che dovrebbe consentire di rientrare nel parametro di 4
letti per acuti per mille abitanti ( più un letto per mille abitanti da
dedicare alla riabilitazione) previsto dal Piano nazionale sui dati Oms, è
ancora lontano dall’essere raggiunto nei fatti, ma soprattutto è ancora lontano
il raggiungimento dell’obiettivo di 160 ricoveri per mille abitanti per anno
che, almeno in linea teorica, rappresenta il livello di
ospedalizzazione adeguato a un Paese ad avanzato sviluppo quale è
l’Italia. I motivi per cui tali obiettivi appaiono
lontani sono molteplici: l’inadeguata interpretazione del concetto di continuità
assistenziale e di assistenza territoriale distrettuale costituisce,
verosimilmente, l’elemento cardine. Ma l’altro elemento che consentirebbe di
avanzare rapidamente in questa direzione è quello dell’appropriatezza
dell’accesso alle cure in generale e delle indicazioni
all’utilizzo dell’ospedale per acuti in particolare. La riformulazione del
quesito potrebbe quindi essere posta nei seguenti
termini: attraverso quale strumento è possibile raggiungere l’obiettivo di
garantire buoni livelli di assistenza, i quali, basandosi sull’appropriatezza
delle indicazioni, siano in grado di assicurare i bisogni di salute in un nuovo
contesto organizzativo che consenta contemporaneamente un utilizzo adeguato
alle risorse? Se la risposta teorica appare facile da
dare, più difficile sembra la realizzazione.
Da un punto di vista
strettamente culturale oltre che storico l’ospedale viene ancora recepito come strumento di garanzia assoluto della risposta
ai bisogni in caso di malattia.
Se così è, è necessario porre
in atto tutte le azioni che consentano la realizzazione, sul territorio di un
modello assistenziale in grado di dare risposte sulle 24 ore, per i bisogni
assistenziali per i quali il moderno ospedale per acuti non appare più
adeguato.
Ciò significa non solo
dotarsi di un modello assistenziale territoriale che
sia, a un tempo, paritetico e complementare con il modello dell’assistenza
ospedaliera, ma anche saper realizzare il modello territoriale dotandolo di una
visibile fisicità, evitando di replicare, in questa realizzazione, l’errore di
frammentarne le componenti e di disperderle. Un elemento sul quale potrebbe
essere utile una riflessione è il reale utilizzo dei letti che originano
dall’applicazione del già citato parametro di un letto
per mille abitanti destinato alla riabilitazione. In realtà il termine appare comunque generico: se l’indicazione di letto per acuti
consente di individuare con immediatezza il modello organizzativo di
riferimento, il concetto di “letto di riabilitazione” sembra più sfumato, se
non più debole. L’ipotesi allora potrebbe essere quella di caratterizzare
meglio questa fascia, individuando una rete di strutture di ricovero
a degenza breve (ospedali di comunità), collocate nel tessuto territoriale,
destinate ad accessi dal territorio per patologie prevalentemente croniche
riacutizzate o ad accessi dall’ospedale per acuti per la conclusione di
percorsi terapeutici particolarmente complessi. Insomma, creando una rete di
strutture intermedie tra l’ospedale per acuti e il resto dell’offerta assistenziale, rete che alcune Regioni hanno già iniziato a
costruire, che garantiscano un buon livello di assistenza in contesti
appropriati e a costi più contenuti.
In sintesi la risposta al
quesito suesposto, appare una risposta multifattoriale, poiché le Regioni
dovrebbero:
1. riorganizzare il modello assistenziale
razionalizzando il ruolo degli ospedali per acuti e rivalutando il modello di
assistenza territoriale;
2. assumere iniziative atte ad
armonizzare le due componenti fondamentali del modello organizzativo, in
particolare garantendo visibilità e continuità al modello dell’assistenza
territoriale, generalizzando lo strumento degli ospedali di comunità;
3. rivalutare, in questo contesto, il
ruolo del medico di medicina generale, favorendone le forme collaborative
(associative o altro, quali possono essere, ad esempio, le Uta o Unità
territoriali di assistenza primaria);
4. favorire lo sviluppo di linee guida
finalizzate a porre e successivamente verificare, l’appropriatezza delle
indicazioni alle prestazioni;
5. creare percorsi che consentano di
porre in connessione tutti questi elementi.
Si tratta, in buona sostanza,
di affiancare al concetto di organizzazione del modello assistenziale, nelle
sue due componenti, ospedaliera e territoriale, quello del governo clinico.
Governo clinico e appropriatezza
I due concetti sono la
solida chiave di funzionamento di un moderno Sistema
sanitario. Se il concetto di appropriatezza è
intuitivamente importante (ma non altrettanto facilmente applicabile), il
concetto di governo clinico è utilizzabile con minore agilità.
Forse perché il termine risulta da una traduzione letterale del “clinical
governance” della riforma Blair del 1997. In realtà i due termini, pur
esprimendo campi concettuali molto diversi, sono di
fatto inscindibili. Il segmento di una qualsiasi
organizzazione sanitaria (azienda, dipartimento, distretto, unità operativa,
cure primarie) che sia dotato di un accettabile sistema di governo clinico non
può non possedere, quasi per default, anche adeguati strumenti in grado di
valutare e, quindi, di incrementare l’appropriatezza dei processi terapeutici
propri o condivisi con altri.
Il concetto di governo
clinico contiene, infatti, in sé le componenti
fondamentali per il governo dei processi complessi: la pianificazione pluriennale,
che contenga gli obiettivi, il budget di spesa necessario al perseguimento
degli stessi, le valutazioni di outcome. Ancora, nessun modello di governo
clinico sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi in assenza
dell’individuazione dei livelli di responsabilità,
siano essi clinici o amministrativi. Generalmente si tende ad applicare il
concetto al meccanismo di gestione di processo di una
struttura complessa, quale un dipartimento, magari ad elevata specializzazione.
In una accezione di tipo estensivo, il governo dei
processi in Sanità non può prescindere da una loro “ingegnerizzazione”.
All’interno di tale
ingegnerizzazione, che avverrà per sommatoria di obiettivi,
linee guida, valutazioni, indicazioni e outcome, misure di impatto
sanitario, sociale ed economico, deve trovare sempre maggiore applicazione il
concetto di appropriatezza. E’ appropriato ciò che è adatto e
conveniente a raggiungere l’obiettivo di fornire a quel paziente la giusta
risposta. Nell’attuale contesto di una sempre
più rapida evoluzione della medicina, il concetto di appropriatezza ha a che
fare con l’indicazione terapeutica, con il suo costo in termini economici, ma
anche con il suo costo in termini umani. Insomma riguarda l’etica del bisogno e
della libertà di scelta. Per raggiundere questi
obiettivi, l’impostazione generale non può prescindere- vale la pena di
rammentarlo ancora una volta – dal criterio di responsabilità e a sua volta, il
criterio di responsabilità non può prescindere da quello di gestione delle
risorse. Nella riorganizzazione dei Sistemi sanitari
locali, il criterio di responsabilità nella gestione delle risorse deve essere
legato al criterio di valutazione degli outcome. Se i concetti di governo
clinico e di appropriatezza appaiono le chiavi di
volta del funzionamento del sistema, è necessario individuare uno o più livelli
organizzativi in cui calare con forza tali elementi concettuali. Non può non
apparire evidente che il livello organizzativo più adatto è quello
in cui maggiori sono le possibilità di organizzare e gestire sinergie di
programmi e risorse, quello in cui la professionalità degli operatori si
concretizza all’interno di un disegno terapeutico di programma, piuttosto che
nella solitudine della prestazione individuale o di singola specializzazione:
tale momento organizzativo è il dipartimento strutturale, inteso come struttura
forte, centrale rispetto al meccanismo della generazione dei processi di cura,
gestore a pieno titolo delle risorse specifiche, titolare del budget di
riferimento.
Ma se il dipartimento appare
essere l’elemento centrale del modello organizzativo protagonista del processo di cura, e, quindi, in ultima analisi, il vero
protagonista dell’applicazione del principio di appropriatezza, non meno
importanti appaiono essere le modalità di interfaccia tra il mondo
dell’erogazione delle cure e il mondo del governo generale del sistema. E’
ormai chiaro che il modello attuale di governo delle
aziende sanitarie soffre di una crasi via via crescente tra il momento
decisionale di carattere generale e il momento decisionale di carattere
applicativo. Urge allora individuare modelli di interfaccia tra i due momenti
che garantiscano anche l’appropriatezza delle priorità
delle scelte generali, all’interno di un confronto non solo (e non tanto) di
tipo disciplinare, quanto più prettamente di carattere istituzionale.Una delle
ipotesi che potrebbero essere percorse in quest’ottica è quella di creare i
presupposti per aumentare le possibilità
di confronto delle direzioni generali con le realtà dei dipartimenti da esse
governati. Copncretamente, si tratta, pur senza
attenuare le responsabilità generali di governo delle direzioni generali, di
aumentare il coinvolgimento dei medici nel governo clinico delle aziende. Lo
strumento per perseguire tale obiettivo potrebbe essere quello di inserire il
collegio di direzione nel novero degli organi di governo
delle aziende sanitarie, con competenze che dovranno certamente essere meglio
definite, ma che, comunque, consentano di ottimizzare, anche, se non
soprattutto, in termini giuridici il ruolo di responsabilizzazione dei medici
nel governo delle aziende medesime. Garantire governo clinico significa
garantire appropriatezza. Garantire appropriatezza singnifca
garantire i diritti della collettività a possedere un Sistema sanitario
moderno, flessibile, fruibile senza dispersioni, efficiente e,
contemporaneamente, garantire all’individuo il diritto alla risposta
terapeutica più adeguata, nel rispetto della libertà di scelta individuale.
Conclusioni
La
possibilità per il Sistema sanitario nazionale italiano di superare l’attuale
momento di crisi dando vita a un Sistema sanitario
composto dai sistemi sanitari delle Regioni fortemente coesi tra loro, ancorché
disegnati secondo le giuste ottiche di autonomia previste dalla legge di
riforma costituzionale, è in buona sostanza legato alla capacità delle singole
amministrazioni, nazionale e regionali, di saper sviluppare forti elementi di
innovazione programmatica e gestionale.
In particolare appare prioritario condividire strategia atte:
·
alla razionalizzazione della spesa;
·
all’aumento dell’appropriatezza e del governo clinico;
·
a creare sinergie di sistema.
Uno degli
elementi necessari per perseguire tale scopo è di certo quello legato alle
informazioni.
Nessun sistema ad alta complessità
è in grado di fornire performance di qualità se non sa
scambiare informazioni di qualità: In tempi di trasferimento alle Regioni delle
responsabilità di governo in Sanità appare sempre più importante che i Sistemi
sanitari regionali apprendano a parlarsi tra loro in tempi rapidi secondo un
linguaggio comune, utile a garantire omogeneità di informazione, sia sui
processi, sia sui pazienti. L’introduzione di nuove modalità
di sviluppo del nuovo Sistema informativo sanitario nazionale (Nsis), così come
è stato definito dall’accordo della conferenza permanente tra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome poi sviluppato nel cosiddetto “progetto
mattoni”, potrà supportare il processo di regionalizzazione, mantenendo una
forte coesione tra tutti gli attori del Sistema sanitario nazionale, attraverso
la piena condivisione delle informazioni. Un discorso specifico però
meriterebbe il campo della ricerca, campo che appare indissolubilmente legato
all’identità della rete dei centri di alta
specializzazione. La ricerca in Sanità non può che essere interpretata
prevalentemente, come ricerca translazionale, cioè
come ricerca che trova rapidamente un proprio campo applicativo. La collaborazione con le strutture universitarie, e soprattutto la
capacità di creare spazi collettivi, anche trasversali ai confini regionali
oltreché nazionali, è la via maestra per perseguire questo scopo. Se si sapranno individuare i denominatori generali di sistema,
collegandoli in un’ottica di rete, si potranno porre le basi per un superamento
complessivo delle criticità fondamentali del nostro sistema sanitario in una
fase delicata di transizione verso una piena applicazione della Legge
costituzionale del 2001 e in un’ottica di regionalizzazione armonica tra le
esigenze generali del Paese e quelle particolari delle Regioni.
Franco Toniolo, Giampietro Rupolo, Tiziano Martello
Segreteria regionale Sanità
e sociale Regione del Veneto