L’allarme dell’ONU: “Cresce la povertà”
Un mondo multiculturale dove la diversità non venga vissuta come fattore destabilizzante ma anzi come collante e ricchezza di una società. E’ questa la sfida del nuovo Millennio secondo il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2004 (sottotitolo: “La libertà culturale in un mondo di diversità”) giunto alla quindicesima edizione e presentato ieri a Bruxelles dall’Unpd (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo). Se non si affronta questo problema, se non si riconosce che tutti gli individui hanno diritto a conservare le proprie identità etniche, linguistiche e religiose, spiega il Rapporto, “le lotte per l’affermazione di un gruppo possono diventare una delle maggio fonti d’instabilità all’interno degli Stati e tra gli Stati”. Lo dimostrano i conflitti etnici e religiosi di questi ultimi anni, basti pensare al Kosovo e alla Bosnia, al genocidio in Ruanda, allo scontro tra israeliani e palestinesi, alla guerra santa lanciata da Al Qaeda.
DEMOCRAZIA MULTICULTURALE – “Io sono la mia lingua, i
miei simboli, le mie credenze” si legge nella prima pagina del
Rapporto. Il problema della convivenza di diverse identità culturali non
riguarda pochi individui ma tutti noi. “Quasi nessun Paese – spiega lo studio
dell’Undp - è interamente omogeneo. I circa 200 Paesi del mondo hanno al loro
interno più di 5 mila gruppi etnici”. E nei due terzi di questi Paesi le
minoranze rappresentano il 10%. La globalizzazione ha portato ad una accelerazione della migrazione internazionale. E molti
degli Stati sono già delle società multiculturali. Metà degli
abitanti di Toronto, ad esempio, sono nati fuori del Canada. Ma spesso
si teme che l’identità di una nazione e la sua stessa
esistenza possano essere minacciate dall’introduzione di diversi costumi. Non è
un caso che un miliardo di persone, oggi, siano
soggette a forme di discriminazione a causa delle loro identità etniche,
razziali o religiose. Eppure la democrazia multiculturale, assicurano gli esperti
dell’Undp, è possibile “attraverso l’adozione di politiche che riconoscano
esplicitamente le differenze culturali, ossia le politiche multiculturali”.
Come dimostra l’Afghanistan che nella sua Costituzione ha riconosciuto due
lingue ufficiali, il pasto e il dari. O come l’Olanda che garantisce alle
minoranze una rappresentanza in Parlamento.
L’INDICE DI SVILUPPO – Il Rapporto, curato da un
team indipendente di esperti e che si avvale di contributi prestigiosi quale
quello del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya Sen, stila anche una
classifica dei Paesi in base all’indice di sviluppo umano, tenendo conto di
diversi fattori, tra cui il reddito pro capite, il livello d’istruzione, la
qualità del servizio sanitario e l’aspettativa media di vita. Al primo posto si
trova la Norvegia, seguita da Svezia, Australia e Canada. All’ultimo
molti Paesi africani, tra cui il Burundi, il Niger, la Sierra Leone.
L’Italia è ferma al 21° posto, preceduta dalla Spagna e seguita da Israele. Un
risultato non brillante, se si pensa che, dal 1975 al 2002,
il nostro Paese è stato sorpassato da Irlanda, Finlandia, Spagna e Lussemburgo.
“L’Italia – spiega Antonio Vigilante, uno dei revisori del Piano – è un Paese
ad alto sviluppo umano, ma ha perso dinamicità. Siamo
meno competitivi sul piano dell’economia e abbiamo limitato la spesa nella ricerca, un punto percentuale del Pil è troppo
poco”. Non brillano, comunque, neanche Francia,
sedicesima, e Germana, diciannovesima. Mentre gli Stati Uniti
si piazzano all’ottavo posto. In Irlanda si
vive meglio che in Inghilterra. La Russia, tra le nazioni europee più
importanti, è al 57° posto con un’aspettativa di vita
di 66,7 anni contro i 78,9 della Norvegia. La Cina, grande
potenza mondiale, rientra a malapena tra i primi cento Paesi.
ASPETTATIVA DI VITA – In alcune parti del mondo
la situazione è desolante. La speranza di vita è diminuita a
meno di 40 anni in venti Paesi, di cui tredici nell’Africa sub sahariana.
La causa dell’aumento della mortalità si chiama Aids.
Il contagio ha raggiunto livelli apocalittici in Lesotho, Namibia, Sud Africa e
Zimbabwe, dove più di una persona su cinque tra i 15 e
i 49 anni è stata colpita dal virus. La situazione è anche peggiore in Botswana
e Swaziland: una persona su tre è positiva o già
malata. “La malattia – spiega Malloch Brown, amministratore
dell’Undp – colpisce le persone nei loro anni più produttivi e danneggia
gli Stati ad ogni livello. Così si finisce per distruggere le fondamenta di ogni cosa, dall’amministrazione pubblica all’assistenza sanitaria”.
POVERTA’ IN AUMENTO – Mentre in Asia orientale
il numero delle persone che vive con meno di un
dollaro Usa al giorno si è ridotto nel corso della metà degli anni ’90, in
altre parti del mondo si registrano delle tragiche inversioni di tendenza. Sono 46 i Paesi in cui le persone sono più povere oggi che nel 1990.
Tra questi, il Ruanda, lo Zambia, il Camerun, il Congo, la
Federazione Russa, l’Ucraina. In 25 di questi Paesi, molti dei quali si
trovano nell’Africa sub sahariana e nella Comunità degli Stati Indipendenti
(Csi), “il numero delle persone che patiscono la fame è maggiore rispetto a un decennio fa”. Il dato è particolarmente preoccupante,
se si pensa che nei decenni precedenti agli anni ’80 e ’90 non si era mai verificato un declino dell’indice di sviluppo.
Secondo gli autori del Rapporto, questi Paesi “stanno indebolendo la loro base
per lo sviluppo, cioè la loro popolazione che
rappresenta la loro ricchezza”.
Monica Ricci Sargentini