L’EUROPA E LA
POVERTA’ NEL MONDO
Nelle scorse
settimane, la World Bank ha diffuso l’edizione 2004
del suo World Development Indicators.
La pubblicazione
contiene informazioni sul numero di persone che vivono
con meno di 1 dollaro al giorno, la soglia di coloro che, secondo una
convenzione accettata dai ricercatori e da chi si occupa dei problemi dello
sviluppo, costituisce la soglia di “estrema povertà”: per quanto sia
discutibile il procedimento adottato, il numero di queste persone, tra il 1981
e il 2001, è sceso da 1451 milioni a 1101 milioni e, in percentuale, sulla
popolazione mondiale, è passato da 39,5% al 21,3?. Ciò significa che nell’arco
di vent’anni la situazione di estrema indigenza si è
quasi dimezzata.
Tra le ragioni
alla base di questo risultato vengono ricordate; lo
sviluppo economico e la partecipazione al commercio mondiale (v.: Le Boucher
E., La pauvretè ètait asiatique au XIX siècle, elle sera africaine au XXIe, Le Monde, 15.5.04).
Tuttavia, una
valutazione più critica porta a rilevare che questo risultato eccezionale è
dovuto alla sviluppo dello Cina, il cui numero di
poveri è passato da 600 milioni a 212 e, in minor misura, dall’Asia del Sud,
che comprende l’India, dove i poveri sono passati da 475 milioni a 428:
confrontando questi dati parziali con quelli globali, si può vedere facimente
che, in altre parti del mondo, la situazione è peggiorata. Infatti,
in Africa, i poveri sono raddoppiati, passando da 164 milioni a 314.
Una prima conclusione che si può trarre da queste cifre è che lo
sviluppo economico è sicuramente una condizione necessaria per combattere la
povertà, ma non è sufficiente. Lo sviluppo deve essere
accompagnato da una politica redistributiva, all’interno dei paesi (in India,
la redistribuzione non ha accompagnato la crescita economica), ma soprattutto a
livello mondiale.
In secondo
luogo, i migliori risultati sono stati ottenuti
dai paesi che si sono aperti al mercato
mondiale, cioè che hanno saputo approfittare dall’occasione offerta dalla
globalizzazione. Da questo punto di vista, il caso dell’Africa, il continente
meno aperto al commercio mondiale, è significativo. Ma
proprio l’esperienza africana e, in minor misura,
quella dell’America latina, è importante anche sotto un altro aspetto. La
crescita economica e la corrispettiva diminuzione del numero dei poveri si sono avute all’interno di economie di dimensione
continentale e pacificate al loro interno, quali appunto la Cina e L’India: i
continenti più frammentati, soprattutto quello africano, ma anche quello
sud-americano, sono quelli che hanno ottenuto minori risultati contro la
povertà, del cui sradicamento devono farsi carico, in buona misura, i paesi
industrializzati.
Le Nazioni
Unite, nel settembre 2000, hanno adottato una dichiarazione che contiene i
cosiddetti “Millennium Development Goals”, tra cui il dimezzamento entro il
2015, rispetto al valore del 1990, del numero dei poveri. Su come raggiungere
questo obiettivo vi sono state e vi sono tuttora, accese discussioni e si sono, nel frattempo, accumulate numerose proposte, dalle
più cervellotiche (una lotteria mondiale, suggerita da una Commissione ad hoc
istituita a fine 2003 da Chirac), a quelle più ambiziose (un prestito mondiale,
suggerito da Gordon Brown). La Commissione istituita da Chirac ha concluso i
suoi lavori suggerendo una scelta tra dodici opzioni
(tra cui, una tassa sui viaggi aerei, sulle esportazioni di armi, sugli
acquisti con carte di credito, sulle fonti energetiche responsabili dell’effetto
serra, sugli utili delle multinazionali, ecc.): è stata discussa, e ancora una
volta ritenuta impraticabile, la cosiddetta “Tobin tax”. Come si può vedere la
fantasia e le idee non fanno certamente difetto:
quello che manca è la volontà politica ed un soggetto in grado di esprimerla:
Chirac ha parlato di una tassa mondiale a Bush al vertice del G8 a Sea Island,
ma senza alcun esito (“une idèe audacieuse”, è stato il commento di Bush,
secondo Le Monde e la cosa è finita
lì).
L’Europa divisa,
senza competenze autonome in materia di politica estera e di bilancio,
non può forzare l’alleato americano perché sia realizzata una iniziativa
congiunta di ampio respiro, quale può essere una politica di redistribuzione
delle risorse su scala mondiale. Essa non riesce neppure a prenderla
direttamente, pur trattandosi di un problema che grava
principalmente su di lei, perché la povertà è una questione geografica ben
individuata ed ai confini dell’Unione: riguarda il continente africano, dove
nel 2015 si concentrerà la meta dei poveri nel mondo, contro un rapporto di 1 a
10 nel 1981. Occorre che l’Europa si dia gli strumenti per
decidere. E’ quindi compito, non solo dei governi, ma anche dei partiti
che li esprimono, procedere, dopo l’approvazione della Costituzione europea,
alla sua revisione. Questa, infatti, pur con tutti i
suoi gravi limiti, consentirà agli europei, se lo vorranno, di battersi perché
l’Unione si doti dei necessari strumenti in politica
estera atti a promuovere, per il tramite degli aiuti economici, i processi di
unificazione regionale in Africa ed in America latina. Ma nel
caso dell’Africa, questo è ancora insufficiente: nel continente africano, i
governi nazionali destinano il 4,5% del PIL (più dell’incidenza degli aiuti che
ricevono, pari al 3%del PIL) alle spese per armamenti; occorre quindi che
l’Unione si prenda anche la responsabilità di garantire agli africani la
necessaria stabilità politica, ponendo fine alle interminabili guerre locali
che dilaniano il continente: in caso contrario i “Millennium Development Goals”
difficilmente saranno raggiunti e la responsabilità politica sarà più europea
che americana.
Domenico Moro