Corriere della Sera 7 luglio 2004

 

“SIAMO ECCELLENTI”

i professori all’assalto del mercato

 

Un tempo, un tempo assai lontano, sorse un movimento nel sindacato che si definì degli “autoconvocati”. Ormai non se ne parla più. Affiora invece alla ribalta dell’Università italiana un altro genere di truppe d’assalto: gli “autoproclamati”. Sono gruppi di docenti che, da soli o in concorso con altri, si propongono al “mercato”” (e al ministero) come “eccellenti”.

Si sa, alcuni forse lo ricordano, che – quando c’era ancora la Costituente – Pietro Nenni fece passare una norma che abrogava il ridicolo epiteto di “Eccellenza”, quello usato con ironia da Giuseppe Giusti (“Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco”, etc.) e che straripava nel gergo ufficiale di epoca fascista (“la Eccellenza il ministro Bottai” e così via). Naturalmente l’eccellenza di questi nuovi autoproclamati è d’altro tipo: sarebbero i bravissimi. E’ perciò tanto più risibile che siano essi stessi a dirselo, a proclamare la propria superiorità, che si traduce – o dovrebbe tradursi – in maggiori finanziamenti, maggiore “prestigio”, etc.

Com’è sorta questa che all’apparenza sarebbe solo una malattia mentale? E’ nata sull’onda, o meglio come effetto, della progressiva liquidazione dell’Università di Stato. Era una conquista che nell’Europa continentale si fosse affermata – in contrasto con la mentalità di ancien règime – la parità a tutti gli effetti delle Università di Stato. Tutte tenute a fornire un buon livello di studi e di mezzi di studio, tutte tenute a praticare una selezione fondata sul merito, tutte tenute a garantite con serietà e senza demagogismi il “diritto allo studio”.

Quando, alla fine degli anni Sessanta, un moto storico di vaste proporzioni investì le università e la scuola, la grande istanza che si diceva lo animasse, volta ad estendere a tutti (senza selezioni classiste) un così importante servizio fu presto svilita e banalizzata: tra l’incoscienza demagogica di molti politici e il cinismo di non pochi universitari. E si produsse il più grande inganno, e insieme il più grande scacco che il movimento democratico abbia mai subito. L’apertura a ”tutti” della cittadella del sapere ricevette come contropartita l’abbassamento pauroso del livello degli studi. Ai nuovi ceti che si affacciavano finalmente a quella fonte di ricchezza intellettuale e civile veniva fornito, per malinteso democratismo misto a cinismo, un prodotto sempre più avariato.

Dopo quasi un quarantennio, sta diventando senso comune che l’Università, essendo per “tutti”, non può che essere una “scoletta” e che la “vera” Università dovrà risorgere nei cosiddetti punti di “eccellenza” (all’arrembaggio dei quali già si mobilitano i più lesti). Il danno è duplice. Quello insito nell’arbitrio dell’“autoproclamazione” è di immediata evidenza: può porvi rimedio ormai soltanto la auspicabile serietà ministeriale nel porre un “alt” a tale arrembaggio. Ma l’altro è talmente macroscopico che passa inosservato. Abbiamo invero assistito alla più spettacolare (e rattristante) conferma della veridicità di quella che Michels e altri chiamarono “ferrea legge dell’oligarchia”.

L’egualitarismo sessantottesco alla fine ha prodotto - negando se stesso – il costituirsi ancora una volta di una élite che tende ad avere un ruolo egemone, magari reclutata tra gli stessi che di quel moto storico furono promotori o partecipi. Un vero monumento alla disuguaglianza. Ma, se “élite” dev’essere, che si cancelli l’orribile e clientelare pratica dell’autoproclamazione.

 

Luciano Canfora

 

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