EDITORIALE
E’ tempo per riproporre un’attenta analisi dei metodi e dei contenuti del
regionalismo in sanità. Con serenità e rigore, senza riproporre
modelli già esauriti, ma anche senza il timore di non essere “politicamente corretti”.
E’ la scelta sempre compiuta da Tendenze, che in tanti anni di presenza nel
dibattito italiano sull’organizzazione dei servizi sanitari ha voluto essere
autonoma anche dalle idee dominanti, per aiutare a pensare chi ancora ritiene
che il pensare sia il modo più umano per condurre le
vicende dell’uomo.
Verso dove
vogliamo andare?
Un primo errore
sarebbe quello di sottoporre il dibattito a fattori contingenti che derivano
dalla momentanea situazione politica; certo, è importante tener conto dello
scenario immediato, ma ancor più è rilevante avere le idee chiare sul modello
finale, che potrà essere raggiunto nel tempo, ma che deve costituire il
fenomeno irrinunciabile. Ciò comporta un ponte tra l’organizzazione dei sistemi
sanitari ed una cultura di riferimento, cioè
un’immagine di come deve essere interpretata la difesa degli interessi delle
persone più deboli (coloro che fanno riferimento ai servizi sanitari, anche se
con gradi diversi di fragilità e di dipendenza).
Un secondo
errore sarebbe quello di ridurre il dibattito alle sole valenze economiche,
pure importanti e spesso decisive. Però non possiamo misurare “il costo di
tutto ed il valore di nulla”; le scelte organizzative, proprio se riferite a
contenuti non marginali, devono avere un livello di autonomia
rispetto ai confini del finanziamento. Purtroppo, attorno a queste tematiche negli ultimi anni non si è sviluppato un dibattito
sufficientemente maturo, come sarebbe stato necessario e come avrebbe richiesto
l’evoluzione della complessità dei sistemi sanitari organizzati.
Un terzo errore
è affidarsi in modo acritico alle ondivaghe posizioni dell’opinione pubblica,
influenzata attraverso strumenti di analisi spesso non
seri o ampiamente influenzabili. Non si critica il
rispetto democratico della volontà popolare, ma solo il populistico assecondare
posizioni che non hanno avuto nessun rapporto con la mediazione politica, in
grado di comunicare sia valori che scelte concrete.
Che fare, quindi? Forse avrebbe senso invitare ad una
riflessione più severa e serena dello status quo e delle possibili alternative. L’impressione che si ha dall’esterno è che i
diversi attori seguano un po’ copioni già scritti,
magari a malincuore, senza avere l’occasione o la possibilità di soffermarsi a costruire
il domani. Non è un giudizio negativo sull’attuale classe politica (ovviamente di ogni posizione partitica), ma il riconoscere l’oggettiva
necessità di proporre una moratoria fuori dalle pressioni del momento o dalla
necessità di dover rispondere a questa o a quella posizione. Pare di cogliere
in generale un malessere rispetto alla strada finora perseguita: il
regionalismo non ha soddisfatto le attese di molti sia al nord come al sud,
perché non ha riconosciuto l’autonomia della comunità, riproponendo un modello
centralistico che si differenzia da quello nazionale
solo per le dimensioni (è ciò vale per alcune regioni, quelle con pochi
abitanti). La domanda di fondo è quale sia il valore
aggiunto dell’attuale sistema regionale in termini di partecipazione reale del
cittadini alla vita dei sistemi sanitari. La sostanziale esclusione dei comuni
dalle decisioni priva la sanità nel suo complesso delle sede
primaria di espressione delle scelte e degli interessi dei ciattadini.
La regioone opera quindi solo come holding organizzativo-economica, una
funzione che potrebbe essere esercitata anche da Roma, purché si dotasse di adeguativi strumenti conoscitivi. Queste domande di fondo, tra le molte riguardanti la sanità, si pone il
cittadino, anche se in modo spesso non razionale: a queste bisogna dare
risposta, partendo dal riconoscimento dei nodi da superare.
Non è questa la
sede per una disamina articolata dei punti caldi che dovrebbero essere tenuti
presenti in un dibattito maturo: quelli che seguono
sono quindi solo alcuni spunti. Un primo aspetto riguarda il federalismo
fiscale, da molti invocato come strumento che permetterebbe la razionalizzazione del sistema. Ma come mettere in atto
meccanismi perequativi anche pesanti per finanziare lo sviluppo delle regioni
meno avanzate? In una logica di federalismo (ciascuno spende in
base a quello che produce) come si giustificherebbe concretamente e
“psicologicamente” uno spostamento verso il sud di rilevanti risorse? E non
basterebbe invocare l’esigenza di finanziare omogeneamente i LEA: le scelte
sarebbero politiche e queste, per definizione, non sempre sono facili. Inoltre
il trasferimento di risorse potrebbe far invocare il
diritto a sorvegliarne l’utilizzazione da parte di un’autorità indipendente (il
Ministero della Salute): ma con quali poteri reali, se non limitando l’autonomia regionale?
Un secondo nodo
è rappresentato dalle differenze qualitative e quantitative nell’espletamento
dei servizi; è lecito continuare a non vedere le reali differenze tra i sistemi
regionali? Qualcuno obbietta che le aree di crisi erano
presenti anche ai tempi del centralismo; pur essendo vera, questa critica
accetta di fatto la più totale impotenza verso uno status quo che richiederebbe
per molti aspetti “un’intolleranza creativa”. Ma quanti sono
così illuminati da mettere in atto una lettura della realtà che sia
indirizzata al cambiamento, allo stesso tempo esercitando una forte capacità
progettuale? Due esempi tra i molti potrebbero essere fatti. Il primo riguarda
l’appropriatezza dei ricoveri ospedalieri: dati recentemente pubblicati confermano da una parte condizioni di sottotrattamento per
specifiche patologie, dall’altro condizioni di sovratrattamento. Come sarà
possibile riequilibrare il sitema di fronte alle chiusure delle singole
regioni? Un altro esempio è quello dei servizi per gli anziani: lo scenario è
caratterizzato da reti (quando esistono) completamente diverse, che si ispirano a criteri clinici, organizzativi ed economici
assolutamente difformi, talvolta difesi accanitamente anche quando sono privi
di razionalità e non fondati su dati minimamente controllati. E’ lecito
accettare una sostanziale diversità dei cittadini di una
stessa nazione, proprio nel momento di maggiore bisogno? L’interrogativo è
certamente retorico, però con ricadute concrete: esiste un potere in grado di
intervenire con prestigio per riequilibrare il sistema? Basterà conservare
l’unità dei meccanismi formativi degli operatori? Ma, d’altra parte, se si
riconosce la sostanziale unitarietà dei contenuti che vengono trasmessi, come è possibile poi ammetterne un’applicazione difforme,
senza ingenerare frustrazione negli stessi futuri operatori?
Mi auguro che
questo editoriale venga letto come un contributo costruttivo al dibattito, che potrà aver luogo anche sulle pagine dei prossimi numeri di
Tendenze. Un ringraziamento a chi vorrà cogliere il senso di questa
offerta della nostra rivista.