Libera professione,
etica professionale e governo del sistema sanitario pubblico
Forse sarà una moda, ma una delle disfunzioni sulle quali
più forte si alza la lamentela dei cittadini, tale da costringere ministri e assessori
regionali ad agitarsi per porvi rimedio, riguarda la
liste d’attesa.
Altrettanto evidente risulta l’associazione
di queste ultime con la cosiddetta “libera professione intramoenia” introdotta
nel Servizio sanitario nazionale dal decreto legislativo 229 (altrimenti detto
Bindi). Se le Regioni attraverso provvedimenti
amministrativi, che lasciano il tempo che trovano, e i ministri, con il
ridicolo e controproducente sguinzagliamento dei Nas, mettono sulla graticola
le liste d’attesa un motivo ci deve pur essere.
Risulta, quindi, ormai offensiva la negazione da parte di autorevoli dirigenti di aziende sanitarie che sventolano
con superficialità dati completamente inattendibili sulla lunghezza delle liste
d’attesa pur essendo consapevoli di tre cose: la prima che le difficoltà di
prenotazione della prestazione (linee telefoniche perennemente occupate, ecc.)
sono tali da sfiancare anche la persona più tenace e la seconda che l’optare
per la prestazione in libera professione garantisce nello stesso posto e con lo
stesso operatore sanitario tempestività
e velocità.
All’approvazione della legislazione sulla libera professione,
pochissimi (e inascoltati) hanno protestato contro, consapevoli dei problemi
etici e delle contraddizioni professionali e organizzative che la commistione e
confusione tra interessi pubblici e interessi privati insiti in una tale normativa e del suo effetto
dirompente anche dal punto di vista morale.
Ora la libera professione ha legato in un patto cinico
varie categorie che, insieme, traggono notevoli benefici economici e non sono
più disponibili a tornare indietro e ha piegato
l’organizzazione sanitaria alle esigenze degli operatori anziché a quella dei
cittadini.
Naturalmente, contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe
dar da intendere, non c’è nessuna furia iconoclasta e moralistica in quanto affermato finora, ma l’esigenza di vedere prevalere
gli interessi generali.
In questo quadro, far finta che “tutto va ben madama la
marchesa” o addirittura affermare la superiorità morale della libera
professione praticata nell’ospedale pubblico utilizzando i servizi pubblici
(mascherata attraverso il regime dell’esclusività) su
quella praticata nelle cliniche private, risulta francamente inaccettabile e
una tremenda presa in giro dei cittadini e di coloro che credono nel primato
del Servizio sanitario pubblico che è stato istituito ed è governato attraverso
le leggi approvate dal Parlamento e dalle Regioni.
Serve, quindi, ritornare a tenere
ben distinto il lavoro dipendente a tempo pieno dalla libera professione, che
deve rimanere privata all’esterno della struttura pubblica e di piena
responsabilità di chi la pratica.
Per eliminare o meglio far rientrare le liste d’attesa in
termini fisiologici e accettabili sono utili le tanto criticate
incentivazioni tanto criticate nel servizio pubblico quanto praticate
nel settore privato.
Insomma, solo la chiarezza e la semplicità delle regole
generali determina un regolare funzionamento.
Alla fine si torna sempre alla responsabilità di coloro
che si sono candidati e sono stati chiamati alla guida
del Paese: a loro tocca, non solo nel settore della tutela della salute, a fare
in modo che l’interesse generale, nel campo dei diritti garantiti a tutti i
cittadini, sia pienamente rispettato tutti i giorni senza dover ricorrere a
strumenti coercitivi che non risolvono nulla.
Roberto Buttura