OSPEDALE: LA GRANDE SFIDA.
Dalla nascita dello Stato liberale dopo la metà del secolo scorso fino all’inizio degli anni ’70,
quindi poco più di trent’anni fa, le “riforme” chieste a gran voce dal
movimento sindacale e dalle forze politiche progressiste s’incentravano in modo
particolare sullo slogan “più case, più scuole, più ospedali”, nel quale erano
efficacemente riassunti gli obiettivi d’uguaglianza e di pari opportunità che
essi si proponevano di raggiungere.
Il sostegno convinto di una
parte consistente della popolazione portò, nel tempo, ad una modificazione della
cultura politica della classe dirigente e quindi ad una trasformazione della
legislazione.
Nella fattispecie, l’assistenza sanitaria e sociale
dal ristretto e meritorio ambito privato delle opere di beneficenza, che tanto
avevano supplito all’assenza dello Stato, in modo progressivo divenne materia
d’interesse pubblico. Il definitivo salto
di qualità avvenne con l’articolo 32 della Costituzione, operante dal
1948, che eleva la tutela della salute a diritto
del cittadino. Gli anni successivi furono dedicati a rendere concreto l’assunto
con la costruzione di nuovi ospedali e con l’estensione della rete dei medici
addetti all’assistenza sanitaria sul territorio. In generale, ciò avveniva
attraverso il massiccio e diseguale intervento delle comunità locali le quali,
in particolare modo con la costruzione ed il funzionamento di
un ospedale, conseguivano l’evidente, ovvio, doppio risultato di
realizzare un prestigioso strumento di tutela della salute e di rispondere allo
stesso tempo ai problemi di disoccupazione che affliggevano il territorio.
Rimane il fatto che il Paese diventò un cantiere d’edilizia sanitaria
ed una fabbrica di medici e di personale variamente qualificati. A tale
proposito è da ricordare che, ancora alla fine degli anni ’50, nel Veneto,
regione considerata all’avanguardia nel settore, gli infermieri erano assunti
senza alcuna specifica preparazione in base a
requisiti clientelari e di bisogno e comunque estranei al lavoro da esercitare.
Uno degli esempi più significativi riguarda l’assunzione
da parte delle Province allora competente in materia degli infermieri, da
destinare all’assistenza negli Ospedali psichiatrici, per i quali il requisito
fondamentale era la prestanza fisica.
La pressione sociale per la realizzazione di migliori condizioni di vita non era certamente un patrimonio
nazionale ma si esplicava in modo disuguale in tutti gli Stati a forte
espansione industriale. La Gran Bretagna fu il primo Paese nel quale l’avvento di un governo riformista portò ad una profonda e
anticipatrice trasformazione della legislazione sanitaria. Nel 1947 fu
approvata la legge Beveridge con la quale era
istituito il “National Health Service”, il Servizio Sanitario Nazionale, al
quale tutti i Paesi retti da una democrazia parlamentare hanno fatto
successivamente riferimento per la propria legislazione.
L’affermazione della tutela della salute intesa
come diritto e quindi il progressivo ampliamento dell’intervento pubblico per
realizzare servizi atti a soddisfarlo ha stimolato la ricerca
e la formazione. Nel frattempo altre sfide in altri settori (sono da rammentare
le imprese spaziali) hanno interagito contribuendo a realizzare invenzioni e
scoperte tecnologiche straordinarie e nel campo farmaceutico forte è stato
l’impegno sia nella prevenzione con la scoperta e la produzione di vaccini che hanno debellato terribili morbi e malattie sia
nella cura di patologie invalidanti se non fatali.
Negli ultimi trent’anni quindi è avvenuta una
straordinaria e pacifica rivoluzione che ha radicalmente cambiato il modo di
tutelare la salute del cittadino.
Questo ed il profondo mutamento della società nella
sua composizione (si pensi al fenomeno della diminuzione della natalità
accompagnato dall’allungamento poderoso dell’aspettativa
di vita) ha messo in discussione l’organizzazione sanitaria ed anche il ruolo e
la funzione dell’ospedale, il quale, ad onor del vero, non è mai stato in
generale la struttura così ben identificata come qualcuno vorrebbe far
supporre. Da questo punto di vista, il nome “ospedale” è stato riconosciuto
anche a stabilimenti che nemmeno negli ultimi tempi hanno avuto qualcosa da
spartire con la legge 132/68, la cosiddetta “Mariotti”, che ne definiva le
caratteristiche ed i livelli.
Si è quindi giunti nel 1978 all’approvazione della
legge 833 con la quale anche in Italia, 31 anni dopo la
Gran Bretagna, si è istituito il Servizio Sanitario Nazionale, il cui primo
difficilissimo compito è stato di rendere razionale la rete dei servizi sul
territorio, tagliando, rimodellando e potenziando secondo le necessità.
I primi anni d’applicazione della 833 sono stati
quasi esclusivamente dedicati al potenziamento tecnologico e di personale delle
strutture ospedaliere ad alla realizzazione sul
territorio di strutture per la prevenzione mentre la terza funzione prevista
dalla 833, la riabilitazione, salvo sporadici e pionieristici casi non ha avuto
collocazione né sviluppo.
Resistenze politiche e sociali legittime hanno
impedito che il potenziamento fosse preceduto da un’attenta e rigorosa
programmazione delle risorse finanziarie e tecniche. Era ancora troppo recente
e vivo il tempo in cui erano reclamate “più case, più
scuole, più ospedali” ed era quindi inevitabile che non fosse gradita una
politica sanitaria che indicava nella chiusura di “ospedali” la via maestra per
il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria. Anche nella categoria
medica, pur in linea di massima favorevole alla riorganizzazione ospedaliera, permanevano forti resistenze dovute alla radicata cultura
del “posto letto”.
D’altra parte, in pochi anni la benefica
rivoluzione tecnologica di cui si è scritto sopra, oltre a mettere in
discussione tutte le convinzioni più radicate, ha elevato moltissimo i costi
per il funzionamento dell’organizzazione sanitaria pubblica alla quale si è
aggiunta con il tempo fino ad integrarsi una notevole per quantità e qualità
assistenza sociosanitaria.
Se il periodo dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta,
era stato tutto un fiorire di nuove costruzioni di “ospedali” o di loro
ampliamento, gli anni Ottanta hanno rappresentato il tempo della transizione
durante il quale si è cercato di ridefinire il ruolo e la funzione
dell’ospedale all’interno del sistema sociosanitario. In molti casi,
contrariamente a quanto percepito come spreco e sperpero di risorse
dalla pubblica opinione, opere di costruzione d’ospedali sono rimaste
incompiute proprio perché era completamente modificata la situazione.
Questa breve e certamente
incompleta premessa di carattere storico era indispensabile per ragionare sul
futuro dell’ospedale. Come si è
visto nel giro di pochissimi anni esso, nato dalla privata beneficenza, a
servizio di piccole comunità locali, è via via diventato una struttura in grado
di rispondere a bisogni di territori più vasti fino ad
essere inserito, in seguito alla legge 833/78, all’interno di una rete di
servizi programmati per rispondere alla tutela della salute.
Il salto di qualità
operato dal servizio sanitario pubblico ha determinato anche un incremento
notevolissimo della spesa. Su questo punto, peraltro, sarebbe necessaria maggiore obiettività anziché una critica esasperata ai
limiti della faziosità. Non esiste dubbio che si siano verificati sprechi e sperperi
ma è altrettanto vero che il servizio sanitario è riuscito a costruire una rete
capillare di servizi investendo molto sul miglioramento della
professionalità del personale acquisita attraverso uno straordinario
incremento della formazione e dell’aggiornamento.
L’ossessione dalla spesa pubblica, all’inizio degli
anni ’90 ha portato ad una sterzata legislativa che ha influito e ancora
influisce nei rapporti tra ospedale e territorio. Con il decreto delegato
502/92 (notevolmente modificato nelle parti più liberiste dal 517/93) avendo
come obiettivo prioritario il controllo della spesa, si è creato un “mercato
virtuale” attraverso la ricostituzione di molti ospedali in enti autonomi, dai
quali le Ulss, come ai tempi delle mutue, attivando una specie di concorrenza
“comprano” le prestazioni di cui hanno bisogno i
propri cittadini. Inutile sottolineare la contraddittorietà
di una simile teoria. Il Servizio sanitario pubblico, infatti, non ha bisogno
di fornire più prestazioni di quelle necessarie per la tutela della salute, il
“mercato” per alimentarsi ha bisogno di produttori che producono sempre di più
e d’acquirenti che comprano sempre di più. Il riferimento spontaneo è
rappresentato dagli Stati Uniti che spendono per la
sanità in termini di Pil (prodotto interno lordo) quasi il doppio dell’Italia
con circa 40 milioni di cittadini (circa il 15% della popolazione) esclusi da
qualsiasi copertura sanitaria.
In un momento in cui l’esaltazione del mercato ha
raggiunto livelli parossistici, lo scorporo degli “ospedali” e la loro
filosofica equiparazione a fabbriche ne ha decretato
la loro sempiterna indispensabilità sottraendoli alle critiche lanciate contro
il territorio, diventato responsabile di tutti gli sprechi e di tutti gli
sperperi. Per avvalorare tutto ciò, per l’ospedale si è sancito per decreto
l’obbligo del pareggio di bilancio, ricercando degli
strumenti fittizi atti a raggiungerlo. Si è dato così corpo alla tariffazione
che non è comunque bastata alla bisogna: i bilanci
degli ospedali e delle Uls sono in passivo, il personale è demotivato e la
qualità complessiva dei servizi decaduta.
La svolta liberista, frutto di un’interpretazione
del decreto 502/517 e di un determinato clima politico, non ha quindi prodotto
i miracoli che erano stati promessi ed ha rischiato di compromettere le
caratteristiche d’universalità del Servizio Sanitario Nazionale.
Oggi, una più attenta analisi sull’applicazione
della legislazione 1992/93 sta determinando una salutare riflessione che
coinvolge in modo particolare i più accaniti sostenitori delle teorie liberiste
e suona, quindi, come musica per le orecchie di coloro che
hanno sempre avversato una tale impostazione, il cambiamento, a volte
radicale, degli slogan. Un esempio per tutti: la parola
“concorrenza” tra ospedale ed ospedale e tra ospedali e territorio è sostituita
con la parola “collaborazione”.
Con questo riemerge uno dei principi su cui si basa
il servizio pubblico e cioè il senso d’appartenenza ad
un’unica grande organizzazione finalizzata alla tutela della salute ed è
implicitamente rivalutata la programmazione come elemento fondamentale di
governo del sistema.
In questo contesto,
l’ospedale ha bisogno di essere ripensato e molte sono le domande a tale
proposito.
Esso deve diventare, come qualcuno paventa, la
struttura nella quale sono allocate le grandi
tecnologie ed esercitate le grandi specialità per la cura solo di bambini e
persone in condizioni produttive oppure in esso deve essere riorganizzata e
potenziata tutta la parte della medicina generale? La sempre minore importanza
dei posti letti in alcune specialità (chirurgia ad esempio) e l’esplosione
delle malattie croniche impone oggi ed ancora di più nel futuro la costruzione
o la modificazione di strutture ospedaliere solo
per renderle più flessibili ed adattabili ai vorticosi mutamenti? L’assistenza
domiciliare, che ad oggi non ha fornito grandi prove, potrà
essere in grado di sostituire la residenzialità sanitaria? E’ corretto pensare
ad ogni ospedale come ad un modello organizzativo completamente sganciato dalla
rete di assistenza sanitaria e quindi
autoreferenziale?
Le risposte a queste e ad altre domande che si
potrebbero fare, sono legate alle varie convinzioni
politiche. Un sostenitore della sanità pubblica risponderà certamente in modo
diverso dell’assertore di un regime sanitario a caratteristiche
statunitensi.
Una cosa comunque è certa.
Il sostenitore della sanità pubblica, categoria
nella quale mi identifico, individua nell’ospedale uno
dei punti, come era espresso precedentemente, nei quali si articola il
complesso sistema di tutela della salute e di per ciò stesso sottoposto a
verifiche di funzionalità e di qualità, sulle quali è importante rilevare le
difficoltà di applicazione a causa di fattori sociali e professionali.
L’assertore della sanità privata è inevitabilmente
portato a raffigurare l’ospedale come una struttura completamente autonoma ed
indifferente al sistema, nella quale funzionano le risposte a patologie
redditizie economicamente e a bassa intensità di cura e di ricovero
quindi apparentemente molto efficiente, sostanzialmente no.
Ecco perché l’ospedale rappresenta la grande sfida
del futuro: in esso si confrontano e si scontrano due filosofie contrapposte
sul modo di tutelare la salute del cittadino e non solo su questo.