LA PROVA DEL NOVE
La
rivista dell’Associazione Italiana di Epidemiologia ha
recentemente pubblicato uno studio sulle “Disuguaglianze di salute in Italia”,
dal quale emerge che la perdita di salute oltre ai noti fattori (biologici,
chimici, fisici) dipende anche dalle condizioni economiche e sociali.
Credo che
questo studio, insieme ad altri, non ha fatto altro
che confermare non il sospetto ma la certezza che alberga nella mente di
qualunque persona di buonsenso, ma è comunque interessante perché tenta di
stabilire e quantificare anche le differenze. Ad esempio, accerta che le
persone con lavoro precario hanno un tasso di mortalità superiore del 50%
rispetto a chi è in possesso di un lavoro stabile (questo
bisognerebbe ricordarlo a Massimo D’Alema quando, da presidente del Consiglio,
si avventurò in uno sperticato e spericolato elogio del “lavoro precario a
vita”), percentuale che sale al 250% in più se si tratta di persone
disoccupate.
Le
persone che appartengono ai ceti meno agiati sono anche coloro
che mostrano una maggiore tendenza ad usare (o abusare) di alcool e
tabacco ed è ormai dimostrato che, per esempio, l’abitudine al fumo viene
progressivamente abbandonata dai ceti medio-alti mentre aumenta in quelli disagiati.
Anche nel rapporto tra malattie e reddito si evince che la diminuzione
di quest’ultimo comporta una maggiore possibilità di poter essere sottoposto a
ricovero ospedaliero. A Roma, per ogni ricovero tra i più “ricchi” si registrano 1,45
ricoveri nella piccola borghesia, 1,50 tra gli operai specializzati e 1,75 tra
quelli non specializzati.
Anche la
condizione femminile muta al mutare del reddito: le donne che guadagnano meno
hanno un rischio del 20% più alto di essere soggetto
ad infarto, percentuale che sale al 40% se si considera la mortalità.
Ci sono
anche casi paradossali da cui sembrerebbe che i ricchi stanno peggio dei
poveri, per esempio per quanto riguarda le allergie e alcuni tipi di tumore
(colon, mammella, ecc.) ma probabilmente si tratta di riscontri
dovuti alla maggiore sensibilità ed attenzione che le classi agiate pongono
alla tutela della propria salute.
Alla fine
comunque quello che emerge è il dato generale
sottolineato all’inizio: le persone più povere si ammalano di più delle persone
più ricche.
E qui
entra in ballo il Servizio Sanitario Nazionale e la sua capacità di rispondere
in modo equo ai bisogni terapeutici ed assistenziali,
riequilibrando nella tutela della salute la differenza di carattere economico.
A questo proposito non bisogna dimenticare che i ceti più ricchi hanno modo di accedere generalmente ai servizi migliori rivolgendosi alle
persone giuste e ottenendo un trattamento migliore.
Tutto ciò accade pur in presenza di un servizio
pubblico considerato ancora oggi, nonostante tutto, in grado di rispondere in
modo efficace alle esigenze dei cittadini.
Per fare
in modo che le disparità economiche presenti nella società non prevalgano odiosamente
nel diritto alla tutela della salute, c’è l’esigenza di valutare l’equità e la
tempestività nell’accesso ai servizi da parte del cittadino, eliminando sprechi,
sperperi, sacche di inefficienza e disorganizzazione,
insomma raggiungere e mantenere l’obiettivo per cui è stato creato il Servizio
Sanitario Nazionale.
Tutto il
resto non conta nulla.
Roberto Buttura