Il mito “appropriatezza”

 

   La cosiddetta “appropriatezza” è uno dei temi sui quali più si dibatte in questi ultimi anni tra gli esperti di sanità o più generalmente di diritto alla tutela della salute.

   Solo in questo contesto, infatti, ha senso parlare di appropriatezza perché l’applicazione di questo termine ha una sua ragione d’essere in presenza di un interesse generale (la garanzia di ogni cittadino di essere tutelato nel bene più prezioso, la salute) che per sua natura deve essere organizzato in modo esemplare e dinamico rifuggendo sprechi e sperperi.

   L’“appropriatezza”, in questo senso, sarebbe proprio l’antitesi dello spreco e dello sperpero, se non fosse ristretta come oggi accade all’analisi delle prestazioni fornite dal Servizio sanitario nazionale e alla loro codificazione.

C’è da restare abbastanza perplessi di fronte ad alcuni studi che evidenziano con enfasi la notevole percentuale di “inappropriatezza” di prestazioni fornite da questa o quest’altra struttura sanitaria, essendo tali dati sforniti dei criteri alla base della classificazione.

   Al proposito, mi permetto di osservare che qualsiasi prestazione sanitaria fornita dal SSN discende dalla valutazione effettuata in scienza e coscienza dal medico – di famiglia o specialista - nelle condizioni in cui si trova il paziente nel momento in cui egli decide il da farsi. Quindi, la valutazione sull’“appropriatezza” dell’intervento di questo medico potrebbe essere fatta solo ed esclusivamente attraverso l’impensabile se non ridicolo affiancamento al medico stesso di altri medici in veste di controllori del suo operato e non successivamente essendo venuto meno l’elemento indispensabile della condizione data.

   Per questo sul tema “appropriatezza” è indispensabile come si diceva sopra cambiare registro e affrontare per quello che sono i problemi di programmazione e di governo del Servizio pubblico dedicato alla tutela della salute sottolineando, in primo luogo, che è giunto il momento di includervi anche il settore dei servizi sociali, specialmente per la parte dei residenziali per le persone anziane o non autosufficienti, che ormai, se non si vuole continuare a parlare in modo vacuo di un termine simpatico e che suona bene alle orecchie come “continuità assistenziale”, senza peraltro metterla in pratica.

   Oggi, gli strumenti legislativi e normativi (legge 328/2000, ecc.) per modificare e riorganizzare questo settore e farlo diventare una volta per tutte il naturale collaboratore del SSN ci sono. Debbono essere attivati, superando visioni ristrette e provinciali che pur traendo una loro legittimazione dalla storia e dalla tradizione, sono completamente superate alla luce del bisogno di qualità assistenziale e buona gestione economica reclamati oggi dai cittadini. 

Un assetto squilibrato o peggio distorto dei servizi socio sanitari e sociali pubblici  oltre a comportare una spesa inefficace e improduttiva, inserisce nel cittadino elementi tali di sfiducia nelle istituzioni da dare corpo e sostanza alle aspirazioni di coloro che politicamente ritengono la salute un settore di intervento economico alla stregua di qualsiasi altro e lanciano periodiche battaglie all’insegna della cosiddetta “libertà di scelta”.

   Il termine “appropriatezza”, è già stato detto, è applicabile solo all’interno di una visione pubblica e di interesse generale della tutela della salute e, quindi, l’esatto opposto di una visione privata che per sua natura privilegia inevitabilmente il “consumo” e quindi l’“inutilità”.

   Per fare un esempio, una azienda sanitaria decise circa dieci anni fa di appaltare il servizio di radiologia del proprio ospedale. Ad una analisi successiva delle prestazioni effettuate fu constatato che circa l’80 per cento delle Tac era dedicato al ginocchio, percentuale molto ma molto diversa da altre ricavate da altri presidi ospedalieri pubblici. Ciò significava che molti esami non erano inappropriati ma inutili.

   Questo è l’esempio che chiarisce che, ecco, se c’è da fare una battaglia vera, essa va combattuta contro l’“inutilità” delle prestazioni.

Per vincerla sono necessari alcuni presupposti come:

·         essere convinti dell’importanza della formazione professionale e del suo continuo aggiornamento e, quindi, investire con larghezza di mezzi nel personale medico e non medico odierno e futuro, nella consapevolezza che esso costituisce la risorsa fondamentale e imprescindibile;

·         considerare il diritto alla tutela della salute come un obiettivo unitario da raggiungere organizzando la collaborazione e l’emulazione delle varie strutture sanitarie e sociali addette allo scopo;

·         legiferare, regolamentare e governare avendo presenti strategie, scenari e modificazioni scientifiche, tecnologiche e strutturali;

·         coinvolgere, nei limiti del possibile, i cittadini e le famiglie nel dibattito e nella conoscenza, migliorando l’educazione sanitaria e sociale;

ma è indispensabile il recupero di un’“etica delle istituzioni”, oggi talmente in crisi da mettere in dubbio, per evidenti disfunzioni e carenze, il ruolo e l’importanza che i servizi sociosanitari e sociali pubblici sono riusciti a conquistare e mantenere fino al recente passato.

   Ecco, se va attribuito il termine di “appropriatezza”, esso calza a pennello proprio a questo valore che deve ritornare velocemente ad essere integralmente vissuto per vivere una nuova feconda stagione nel diritto alla tutela della salute.

 

Roberto Buttura

 

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