4 GIORNI IN GEORGIA
Giovedì
Alle 5 e mezzo di pomeriggio ci rechiamo all’aeroporto,
accompagnati dagli zii. Il raduno è per sei: Mauro, Donato, Elena, Luisa,
Giovanna e il sottoscritto. Meta Tbilisi via Monaco di Baviera, dove come da accordi
abbiamo trovato ad aspettarci Loredana, la suora giuseppina che opera laggiù. Tutto
va bene. Alle 3 del mattino (ora locale) arriviamo nella capitale georgiana.
L’aeroporto è piccolo, quasi deserto e quindi, almeno a quest’ora,
confortevole.
Nella notte percorriamo i viali di Tbilisi, larghi e
alberati, ma che lasciano a desiderare in quanto a manutenzione dell’asfalto.
Le buche costringono a frequenti zig-zag. Nonostante l’ora tardissima (sono le
tre e mezzo/quattro del mattino) ci sono locali aperti (sono ristoranti) e ai
lati delle strade minuscole baracchette, illuminate da fioche lampadine, che –
per quel che riusciamo a vedere - generalmente vendono sigarette, bibite e
altre merci e davanti ai quali non vediamo un cliente che sia uno.
Lasciamo Tbilisi sulla sinistra: dall’andamento delle luci
pubbliche (non molte per la verità) s’intuisce che la città è stata costruita
su una serie di colline. Un bel cielo stellato ci accompagna sulla strada,
stiamo andando a Tserovani, località dove c’è il seminario cattolico dove
saremo ospitati per dormire. Un monastero sapientemente illuminato –cosa che ci
sorprende- domina la strada dall’alto di quella che sembra una rocca e sembra
darci il benvenuto. Finalmente arriviamo (4,30) e andiamo subito a letto.
Venerdì
La sveglia per tutti è alle 10. Con calma facciamo
colazione. Il seminario cattolico della Georgia è una piccola casa in aperta
campagna. Per inquadrarti meglio le cose, Tommaso, alcune informazioni: la
Georgia ha circa 5 milioni di abitanti (ho letto diversi libri e al riguardo
portano informazioni diverse) e i cattolici sono circa 50.000 (un po’ di più
dell’1 per cento della popolazione). Quindi, il seminario, dove risiedono gli
studenti di teologia che diventeranno preti, è proporzionato al bisogno.
Partiamo per Tbilisi, percorrendo all’incontrario la
stessa strada. Ammiriamo, dalla strada, il monastero che alla luce del giorno
si rivela una chiesa, la Chiesa di Jvari. La guida che consulto velocemente dice
che è “uno dei massimi esempi dell’antica architettura cristiana della Georgia”
e per molti georgiani “il vero cuore spirituale del paese”.
Ma anche Mtskheta, l’antica capitale del paese, non
scherza. Il ragazzo musicofilo ci scarica davanti alla Cattedrale di
Sveti-Tskhoveli, “la più grande della Georgia in cui tuttora si amministra il
culto”, dedicata a santa Nino (sì proprio Nino), arrivata in Georgia nel 4°
secolo d.C. e definita l’“apostola della Georgia”. La chiesa è circondata da
mura solide e provviste di spalti con feritoie, costruite nel XVIII secolo, che
l’hanno trasformata in chiesa fortezza (alcuni esempi esistono anche in
Alsazia) dove in tempi bui il popolo si rifugiava per proteggersi dalle
violenze e dalle brutalità dei guerreggianti. Entriamo, dopo aver percorso una
piccola via con ai lati piccoli negozietti ambulanti di souvenir e articoli
religiosi ed essere stati incoraggiati in modo un po’ stravagante e distratto,
quasi come certi impiegati statali, a dare un po’ di elemosina da un piccolo
gruppo di donne sedute appostato sul portone d’ingresso, in un grande piazzale
attualmente parzialmente occupato da un cantiere che ne dovrebbe sistemare
l’arredo. Ci sono infatti scavi in corso eseguiti da escavatori, camion e
rimorchi che appartengono a ben altra epoca. Nella parte del piazzale già
sistemato giace, penso in attesa di essere riportata al proprio posto, una
bella campana con in effigie il patrono della Georgia, san Giorgio che uccide
il drago.
Andiamo all’interno della Cattedrale che si rivela
veramente stupenda, piena di affreschi di notevole fattura e dal punto di vista
architettonico un miscuglio mirabile di vari stili ed epoche di costruzione. Il
luogo di edificazione tra l’altro è alla confluenza di due fiumi Mtvari e
Aragvi e la tradizione indica questo luogo come il giardino di re Mirian il
sovrano convertito da Santa Nino. La costruzione primitiva dovrebbe risalire al
IV secolo d.C. sostituita nel VI da una chiesa in pietra (si notano i resti) e
l’attuale dal 1029 in poi. Veramente bella, bella, bella.
Partiamo per Tbilisi e, viaggiando, considero tra me che tutta
la gente che abbiamo incontrato finora, comunque, pare di indole buona e
gioviale e dotata di un atteggiamento aperto e ospitale. Anche l’abbigliamento
pur rivelando chiaramente la qualità e la fattura scadenti è dignitoso.
Tbilisi, che vediamo alla luce del giorno, piena di
colline e di verde, adagiata sul fiume, è veramente bella ma con interi
quartieri degradati. Arriviamo all’Arcivescovado all’ora di pranzo: se ne hai
visto qualcuno in Italia, beh questo è tutt’altra cosa. Tutto piccolo e
modesto, ma va bene così. Il Vescovo è Giuseppe Pasotto, 51 anni, nativo di
Bovolone, prete stimatino come gli altri, dall’aspetto e dal fare dinamico e
intraprendente (lo dimostrerà la sera guidando in modo spericolato la sua
automobile). Ci sono anche don Pierre un giovane prete francese, don Gabriele
originario da San Martino Buonalbergo (proprio ad un tiro di schioppo da dove
abitiamo noi), don Luigi un vecchio prete molto simpatico con una notevole
paura delle correnti d’aria che porta in testa un basco alla Nenni, il
direttore della scuola teologica e una ragazza segretaria dell’Arcivescovado.
Tutto il palazzo è profondamente segnato dalle crepe prodotte dal terremoto del
1999.
Dopo pranzo, piacevole e buono, approfittiamo delle poche
ore che ci restano prima di partire per Kutaisi per una passeggiata per
Tbilisi, accompagnati da suor Loredana. Camminando arriviamo alla piazza
principale quasi completamente recintata perché la stanno ristrutturando. Un
manifesto enorme in cui sono raffigurate grandi bandiere georgiane sopra volti
di uomini e donne e una scritta per noi indecifrabile. Attraversiamo quartieri
che un tempo dovevano essere residenziali per l’elìte e percorriamo strade
lastricate in porfido, sulle quali si affacciano case con urgente bisogno di
manutenzione a volte fornite di misere bottegucce. Arriviamo così ad una
basilica ortodossa (non ne ricordo il nome, se pure c’è stato detto) con di
fronte la ex sede del Patriarcato (sempre ortodosso). Come in tutte le chiese
ortodosse, ci sono preti con una bella voce (sembra quasi che questo debba
essere il primo requisito), che cantano in controcanto con un coro altrettanto
intonato misteriose (per noi) canzoni religiose, spargendo dappertutto incenso
nell’oscurità della chiesa, oscura come tutte le chiese ortodosse. E’ il
simbolo del mistero così presente nella liturgia ortodossa tanto che la maggior
parte del tempo rituale viene occupato ad occultarsi dietro l’iconostasi, il
muro che separa il popolo dal celebrante. Non ci sono molti fedeli alla
celebrazione del rito e la maggior parte (90 per cento) sono donne un po’ di
tutte le età.
Scendiamo verso il fiume in questo punto attraversato da
un ponte. Il fiume qui scorre sul fianco di una rocca sopra la quale si
slanciano un’altra chiesa ortodossa e il monumento a Vakhtang Gorgasali,
considerato da molti il padre della Georgia.
Dopo essere entrati e aver ammirato la bellezza della
sinagoga, accompagnati da un addetto ebreo -prima testimonianza diretta della
tolleranza religiosa che caratterizza i georgiani, apprendendo meravigliati che
la comunità ebraica in questi luoghi è presenta da 2500 anni fa, perché una
parte non tornarono in Israele dalla Persia ma preferirono venire in Georgia
(una specie di diaspora pacifica ante litteram), eccoci arrivati ai bagni termali.
Tbilisi significa “calda” e la tradizione la vuole riferita alla presenza
abbondante di sorgenti di acque termali, sulle quali furono costruiti i bagni a
forma di piccole cupole che vediamo davanti a noi e che si trovano sul limitare
di un quartiere molto carino e caratteristico senz’altro oggetto di una
recentissima ristrutturazione.
Attraversiamo il ponte e saliamo sul colle. Da lassù si
ammira un bel panorama di Tbilisi con davanti la vecchia fortezza di Narikala
che non riusciamo a visitare per l’esiguità del tempo disponibile. La chiesa di
Mekheti è simile alla precedente. L’unica nota di costume è rappresentata dalla
presenza di un prete ortodosso che sembra dare consigli o confessare una donna
di mezz’età abbastanza piacente. L’atteggiamento, almeno per quanto vedo io,
non è propriamente angelico o spirituale con strani e ripetuti toccamenti e
carezze che non sembrano comunque sollevare sorpresa o scandalo in alcuno.
Torniamo giù, ci fermiamo a bere una bibita in un bel bar
sul fiume e poi ritorno alla Cattedrale cattolica dove ci aspettano don
Giuseppe e don Luigi per partire alla volta di Kutaisi. E’ sera ormai. Il
vescovo, come dicevo si dimostra un guidatore spericolato sulla strada buia e
piuttosto maltenuta (e pensare che si tratta della strada più importante della
Georgia, tagliandola da Est ad Ovest). Ci fermiamo ancora a Tserovani (per
caricare verdure coltivate nei campi del seminario), successivamente a Surami,
dove ai lati della strada ci sono piccoli bar e ristoranti, per mangiare qualcosa
(khachiapuri –pane farcito di formaggio- e nasuki –pane e miele- con vino,
acqua minerale e birra) che si rivela veramente buono. Durante il viaggio in
lontananza appaiono piccole luci che una volta avvicinatisi si scopre
illuminare piccoli negozietti dove vendono bibite, alimenti e perfino pane
fatto sul posto in quelli che paiono recipienti fumanti.
Alle 23 eccoci a Kutaisi di cui si distinguono le ombre
mancando completamente l’illuminazione pubblica. L’impressione notturna è di
una città in stato d’abbandono (aveva 500.000 abitanti, ora sono la metà).
Arriviamo alla sede della Chiesa cattolica (non c’è qui un vero e proprio
tempio), situata vicino alla piazza principale, l’unico posto un po’ illuminato
e, ad un primo sommario sguardo, realizzato nello stile sovietico.
Sabato
C’è sole e caldo. Una colazione
veloce, poi via verso un centro per ragazzi realizzato dai cattolici e gestito
da don Gabriele. La bella giornata non riesce ad ammorbidire il tremendo
degrado della città. Alla carenza d’acqua e di luce elettrica (ne faremo
un’abbondante esperienza nei giorni successivi) si aggiunge il desolante spettacolo
( se così si può chiamare) di una città lasciata a se stessa. Molte case
costruite durante il regime sovietico sono grigie o addirittura nere,
spettrali, deserte e spogliate di tutto. Fabbriche mastodontiche giacciono
arrugginite nell'attesa di crollare su se stesse, le strade sono uguali ad ieri
sera, forse con più buche di quante pensavamo di aver visto. Caro Tommaso,
passiamo per i quartieri periferici di Kutaisi che sembrano essere stati
colpiti da una bomba. La gente cammina con rassegnazione, sulle strade ci sono
uomini e donne che improvvisano botteghe costituite da un tavolino piccolo
piccolo e da una sedia sui quali sono in mostra rotoli di carta igienica,
pacchetti di sigarette o altro con cui tentano di racimolare qualche soldo. A
proposito di soldi, la moneta georgiana è il “lari”, vale circa 1000 vecchie
lire o 50 centesimi dell’attuale euro. Un/una pensionato/a di qualsiasi
professione prende 28 lari di pensione al mese (un chilo di pane costa un po’
meno di mezzo lari). Si è quindi formata una doppia economia: quella ufficiale
e quella del si salvi chi può.
Al centro per i ragazzi sembra di essere su un altro pianeta.
Ci sono laboratori di falegnameria, di informatica, di cucito, di filato, di
terracotta. Tanti ragazzi ci accolgono mettendoci in imbarazzo con la loro
sorridente spontaneità. Un insegnante di danza improvvisa in nostro omaggio un
saggio delle sue allieve. Le ragazze danzano i balli popolari georgiani a volte
suonati al pianoforte da una ragazza, a volte ritmati da tamburi, e sono
veramente belle da vedere. Sono ragazzine dai 13 ai 15 anni dal volto radioso.
Facciamo molte fotografie e ci intratteniamo con loro. Il centro per ragazzi
agisce come un doposcuola(dimenticavo si sono perfino dotati di una radio
locale che trasmette musica) perché è proibito aprire scuole confessionali (e
fanno bene, specialmente per la particolare situazione religiosa esistente).
Fuori sventolano affiancate le bandiere della Georgia (croce rossa in campo
bianco con quattro croci rosse nei quattro riquadri) e dell’Italia.
A pranzo si va alla “Panificio pizzeria pasticceria
Trento”, organizzato dalla Caritas georgiana, aperto 1 anno e mezzo fa, che
impiega 30 persone, ed è già in leggero attivo. Anche questo è un locale che
non sfigurerebbe in Italia o in qualsiasi paese europeo in quanto a bellezza,
pulizia, bontà del cibo.
Il pomeriggio visita al monastero ortodosso di Gelati: un
complesso religioso veramente notevole sia dal punto di vista artistico che
architettonico, situato sulla colline/montagne attorno a Kutaisi. E’ ancora una
volta la dimostrazione o la conferma (di quanto ci hanno detto i religiosi
italiani) che la Georgia o più in generale i paesi caucasici possiedono un
passato ricco di storia, di tradizioni e anche di tolleranza religiosa (ne
avremo un esempio tra poco). All’interno della chiesa principale dedicata a
Cristo pantocratore, costruita come il monastero nel XII secolo, è in corso un
matrimonio suggestivo nel cerimoniale e dominato dal canto del prete a cui
risponde il solito coro formato questa volta da una donna e due ragazzi.
All’originario ingresso del monastero, costituito da una barchessa chiusa da un
portone, è collocata di traverso la tomba del re Davit il Costruttore, pure
costruttore, è il caso di dirlo, di questo monastero. Egli ha voluto esso
sepolto lì affinché tutto coloro che entravano (oggi l’ingresso è in un altro
punto) calpestassero il suo corpo e in particolare il suo cuore. Difficile
capire il motivo di questa volontà, qualcuno azzarda sia stato un gesto di
umiltà, che comunque confligge con la superbia propria dei re.
Ora, dopo il periodo comunista durante il quale i monaci
furono scacciati, il monastero è tornato di nuovo in possesso della chiesa
ortodossa, ritornando ad essere un importante centro religioso.
Tornando verso Kutaisi ci fermiamo in un altro centro di
culto, Motsameta, un piccolo monastero in cui vivono in condizioni notevolmente
precarie e in abitazioni misere alcuni monaci ortodossi, uno dei quali un
vecchio maestoso e con una lunga barba - con il quale ci facciamo una
fotografia - tollerante a differenza d’altri, dice suor Loredana,
particolarmente astiosi contro il cattolicesimo e i suoi rappresentanti. Il
monastero, situato su un poggio da cui si ha una bellissima vista sul fiume
Tskhaltsitela (in georgiano “Acqua rossa”), così denominato per il colore
assunto dall’acqua per il massacro compiuto dagli arabi nel VIII secolo, e
sulle verdeggianti alture circostanti è in uno stato veramente pessimo ed è un
gran peccato. Prima di allontanarci, passo per tre volte ginocchioni sotto
l’altare laterale dove sono custodite le reliquie di due fratelli duchi,
trucidati anch’essi durante il massacro accennato. La leggenda afferma che così
i propri desideri saranno esauditi, ma certamente non il mio. All’esterno della
cinta che chiude il monastero, sulla strada molto disagevole che ci porta della
via del ritorno i cespugli e gli alberelli sono pieni di minuscoli pezzetti di
stoppa, alla moda buddista o scintoista, messi lì per chiedere grazie o altro.
Torniamo a Kutaisi, dove passiamo ad ammirare i resti della Cattedrale di
Bagrati (rimasti senza foto ci ripromettiamo di tornare domani mattina), per
cenare e guardare un po’ di televisione italiana, che qui si vede benissimo. Ci
gustiamo prima il tennis con doppio che sfida la Spagna per i turno di Coppa
Davis, poi le ragazze della pallavolo in semifinale l’Azerbaijian. Vincono
tutt’e due ma è la loro ultima vittoria.
Domenica
Il mattino presto siamo svegliati da un rumore di
motorino: un ronzio fastidioso che va e viene. Il rumore continua e mi fa
alzare. Vado in bagno, apro il rubinetto e constato la completa mancanza
d’acqua (come ieri sera). Per lavarmi un po’ mi arrangio con delle salviette
(ma non mi rado perché non uso e non ho il rasoio elettrico). Esco per fare
qualche fotografia (l’accordo con gli altri è di ritornare alla Cattedrale di
Bagrati) e scopro la fonte del rumore mattutino: è una motosega usata da due
uomini avanti con l’età (?) per tagliare tronchi d’albero e costituire così la
scorta di legna per l’inverno. Segano la legna proprio vicino alla sinagoga
dalla quale escono alla spicciolata poche persone.
Caro
Con una buona ora di ritardo Donato, Mauro e il
sottoscritto ci incamminiamo per Bagrati che è lì vicino su una delle colline
che attorniano Kutaisi. Passiamo tra persone (è domenica: ce ne sono tante) che
passeggiano e altre che, ai bordi delle strade o sugli spiazzi, mettono in
mostra per venderle merci varie, agricole o di altra natura, stese sopra panni
che risentono visibilmente del tempo implacabile. Quando dirigiamo verso di
loro le nostre macchine fotografiche si mostrano incuriositi, si mettono in
posa e molti sbocciano in un sorriso simpatico e amichevole. In sosta o in
movimento ci sono autobus pieni di ruggine e di ammaccature: tutto è sfasciato
e da una sensazione d’abbandono e di degrado senza speranza, nonostante il sole
e la bella giornata. Arriviamo al ponte Chachvis Khidi, uno dei tre principali
gettati ad unire la città sul fiume Rioni, che avendo come letto bellissime
rocce bianche e sulle due rive case incombenti molto molto malandate che
allontanano l’idea, che pure subito può affacciarsi alla mente, di un qualcosa
di simile a Firenze. Prima una salita a gradoni, poi una strada sulla quale
passeggiano indisturbate ci porta alla cattedrale di Bagrati, completamente
priva del tetto, adiacente alle rovine della cittadella antica e della
residenza reale, che erano punti di riferimento importanti per la Georgia fin
dal VI secolo d.C. All’interno della cattedrale c’è un prete ortodosso (sposato
con 4 figli, c’è stato detto) che sta celebrando un rito: ci sono fedeli, quasi
totalmente donne, con i propri figli se sono madri. Come il solito si levano i
canti tra il prete e il coro (formato anch’esso come il solito di tre persone,
in questo caso due donne e un uomo) tra il continuo lavorio del turibolo pieno
d’incenso che emana un intenso profumo. Il posto comunque è veramente
straordinario impreziosito dal contrasto cromatico tra il verde del bel prato,
il beige tufato dei muri che si slanciano al cielo e il gioco di ombre costruito
dal sole. Da qui si osserva il panorama di Kutaisi e delle altre colline che la
circondano.
Scendiamo e c’incontriamo con le altre (Giovanna, Luisa e
Elena). Con loro andiamo al mercato coperto. Anche qui le donne e gli uomini si
confermano simpatici e socievoli. Scatto molte fotografie: l’ambiente è
affascinante e ti cattura. Il mercato è ben fornito di merci (vettovaglie,
abbigliamento, casalinghi, ecc.) e contrariamente all’esterno, al solito sporco
e maltenuto, qui c’è l’impressione di una certa voglia di fare. Il mercato è
pulito e ordinato. Compriamo un barattolo di miele separandolo da altri che
troneggiano sul banco attorniati da api che si divertono a ronzare.
La cucina, dicono, è buona. Finora abbiamo mangiato quasi
esclusivamente all’italiana, se si eccettua la fermata a Surami, ma avremo modo
molto presto di fare una verifica positiva della squisitezza dei cibi georgiani
(non dimenticare l’aneddoto de "La terra di Dio”). Un venditore tiene
appeso al muro una fotografia di Josif Stalin e più avanti un altro c’invita a
fotografare Mikhail Saakashvili, il nuovo giovane presidente georgiano, di cui
evidentemente alla pari dell’altro per Stalin, è un sostenitore. Tutto avviene
senza acredine anzi con il sorriso sulle labbra. Si stenta a credere, vedendo
la bonomia che contraddistingue questi conportamenti, che non più tardi di due
anni fa si sia rischiato un’altra volta (c’è già stata nel 1991 e ci sono
ancora forti tensioni in altre regioni) di arrivare alla guerra civile. Solo le
pressioni di Russia e degli Stati Uniti hanno impedito che accadesse,
convincendo a mollare la presidenza il vecchio e screditato Shevardnadze accusato
dall’opposizione di brogli elettorali e di nepotismo – a ragione se come c’è
stato riferito per fare un esempio, ha privatizzato la locale Telecom
insediando alla presidenza il figlio. C’è anche da aggiungere che il vero e
proprio plebiscito (97% di voti confluiti sul suo nome) con cui meno di due
anni fa è stato eletto Saakashvili non ha certamente determinato l’avvento di
una democrazia matura e responsabile ma piuttosto è da inquadrare come un
fenomeno populista di affidamento fideista dei desideri di miglioramento e di
sviluppo di un paese nelle mani di un uomo, sperando che il miracolo si compia.
Attraversiamo la piazza principale sulla quale si affaccia
il teatro di prosa e al cui centro spicca la statua di re Gorgasali ed entriamo
al ristorante Nefertiti a bere un aperitivo. Anche qui sorrisi e ragazze
vestite all’occidentale in un locale scuro con tutto che richiama ovviamente
l’antico Egitto. Per rientrare alla canonica passiamo nuovamente davanti,
questa volta a piedi, alla sede della polizia di Kutaisi: un palazzo (se così
si può chiamare) che esternamente ha l’aspetto di un rudere, anzi è un rudere,
e, da quello che riusciamo a scorgere dalle finestre semiaperte, lo è anche
all’interno.
Nel primissimo pomeriggio si parte alla volta di Batumi
con il vescovo Pasotto che si conferma un ottimo e spregiudicato autista. La
strada nazionale (da Kutaisi a Batumi la distanza è di 143 chilometri) è
attraversata improvvisamente e pericolosamente da maiali e parzialmente
occupata da mucche che si sistemano in modo tale che lo spostamento d’aria allontani
da loro le mosche fastidiosissime di cui sono piene. Il paesaggio che
attraversiamo è suggestivo, pieno di verde rigoglioso, meno i villaggi anche
loro vittime del degrado che ha colpito questo paese come una colossale
epidemia. Davanti a noi si apre il mar Nero. Costeggiandolo verso ovest
attraversiamo la cittadina turistica di Kobuleti, diventata importante da
quando le spiagge più belle che si trovano in Abkhazia non sono più accessibili
e sicure. Kobuleti è piena di palazzi fantasma come quelli che abbiamo già
visto ma anche di alberghi che ad una occhiata veloce e superficiale non
sembrano proprio pessimi. L’Abkhazia, a proposito, è infestata di mine
inesplose che seminano ancora oggi morte e sofferenze alla popolazione civile.
Prima di arrivare a Batumi (c’è ancora il sole) il panorama cambia in modo sensibile.
Ci s’inerpica su per colline verdi, piene di coltivazioni di the favorite dal
clima subtropicale e poi, ad un certo punto, ecco spuntare la prima vera opera
pubblica di una certa consistenza che vediamo dall’ingresso in Georgia. Una
galleria, che sostituirà il tratto di strada in salita e discesa e piena di
curve che percorriamo adesso facilitando il traffico pieno di camion
antidiluviani, sta per essere terminata e aperta allo scorrimento. Dalla
selletta spartiacque ci appare nuovamente all’improvviso il panorama della
costa del mar Nero con sullo sfondo Batumi e, sulla sinistra, delle splendide e
verdeggianti alture che la circondano. Siamo arrivati nell’Adjara, l’antica
Colchide di Giasone e dei suoi compagni Argonauti venuti ad esplorarla alla ricerca
del mitico Vello d’Oro. Ora questa terra confina con la Turchia (il confine è a
12 chilometri da Batumi) ed è la regione georgiana con la più alta percentuale
di popolazione a religione musulmana (la maggioranza), acquisita al tempo
dell’occupazione ottomana, cosa che francamente non si nota, almeno a Batumi,
al di là di qualche minareto non si vede la gente vestire nella caratteristica
foggia islamica. C’è una tolleranza radicata e secolare tra le varie religioni
e confessioni religiose. Fino ad un anno fa l’Adjara era governata con pugno di
ferro da Aslan Abashidze, in pratica un dittatore –chiamato babu (nonno)-, che
l’aveva trasformata in un feudo personale tanto da dotarla di posti di confine
anche con la Georgia. Destituito dopo un braccio di ferro con Saakhshvili, si è
rifugiato a Mosca non si sa se definitivamente. Rimane che, anche in
conseguenza della secessione dell’Abkhazia –problema non ancora risolto-,
l’Adjara e Batumi (terminale di oleodotti che partono da Caucaso) sono
diventati rispettivamente la zona balneare più importante e il porto più
trafficato della Georgia.
Batumi (134mila abitanti) si presenta con lo stesso
degrado riscontrato nelle altre città a parte la vivacità di alcune opere che
hanno parzialmente modificato in meglio l’ambiente urbano. Nel porto è
attraccata una nave italiana, una petroliera sembra, “Alicudi”. La chiesa
cattolica edificata nel 2000 è nel punto forse più bello di Batumi. Di traverso
tra marciapiedi e strada antistante il sagrato è sdraiato un giovane, forse
ubriaco, che dorme. Intorno ci sono alcuni manifesti con l’effige di un
candidato e uno spreco di bandiere georgiane affissi in occasione delle
prossime elezioni regionali, quelle che dovrebbero insediare democraticamente
il successore di Abashizde. Dopo una passeggiata sul lungomare, una parte è
nuova, piacevole e pieno di piccoli bar con tavolini e sedie all’aperto,
torniamo alla chiesa piccola ma piena di fedeli (siamo un centinaio). Il
vescovo Pasotto, don Bragantini e altri preti (uno è don Vitoldt, il direttore
della Caritas georgiana, che a cena mi stupirà con le sue affermazioni). La
messa è piuttosto lunga considerando le nostre abitudini (1 ora e mezza) e si
avvicina molto alla liturgia ortodossa. Ci affianca un signore, Vitalj, che ci
traduce la predica di don Pasotto. Rimango stupito e ammirato per la sua
bravura. L’italiano che parla è veramente buono e il suo vocabolario esteso.
Parla anche don Vitoldt, che è polacco, e lo fa in russo. Anche questo mi
stupisce.
Finita la messa si va alla “tua” casa, alla “casa di
Tommaso” dove ci aspettano i ragazzi e gli operatori rispettivamente ospiti e
educatori. La “casa”, fuori Batumi, si presenta come una struttura veramente
carina all’esterno e piacevole e con ottime rifiniture all’interno. E’ insomma,
con nostra felicità, superiore alle aspettative. La cerimonia di inaugurazione,
al calar della sera, è breve e intensa. Non ti dico di più perché di sicuro
immagini la nostra emozione. La mamma ha portato una tua fotografia, sorridente
e simpatico come tu sai esserlo. E’ stata messa sul camino della sala da
pranzo.
Prima di cenare c’è tempo per tornare in città per
visitare il dormitorio (ha circa 40 letti) aperto dalla Caritas. Ci sono già
alcuni ospiti – sono circa le otto di sera - e, nel piccolo ufficio, un
poliziotto sta controllando l’elenco degli ospiti. Ci riserva un’occhiata,
forse vede che non siamo ospiti per la notte, e se ne va.
Torniamo a cenare nella “casa” mentre sta cominciando a
piovere. I ragazzi hanno preparato fin troppo cibo. Il piatto principale è
costituito da spiedini molto gustosi che arrivano dopo tanti altri piatti che
abbiamo assaggiato. Ne mangiamo uno più per la golosità che per la fame.
Don Vitoldt, verrò a sapere dopo che è il nome mentre il
cognome è impronunciabile come quasi tutti quelli polacchi, durante la
conversazione afferma che “la Georgia è un paese senza speranza”. E’
un’affermazione grave da parte di un prete tra l’altro presente in questo paese
già da 11 anni. Successivamente don Pasotto ci dice che non condivide don
Vitoldt perché lui (pure qui da 11 anni) ha notato nel tempo una certa reazione
e comunque le cose sono migliorate e d’altronde è difficile mutare mentalità e
cultura ereditate da decenni di dominio comunista e di cultura totalmente
assistenzialista.
Andiamo a letto nella “tua” casa senza lavarsi, anche qui
non c’è l’acqua corrente, sfiniti per la giornata faticosissima. Nel frattempo
la pioggia è aumentata fino a trasformarsi in temporali ricorrenti, che durano
tutta la notte, con tuoni e fulmini che a volte scoppiano vicinissimi come mai
prima d’ora li ho sentiti.
Lunedì
Al risveglio, c’è sole accompagnato da nuvole. Scendiamo
dopo essersi lavati stando molto attenti a non scottarsi, perché
inspiegabilmente c’è solo l’acqua calda anzi bollente, e facciamo colazione.
Penso all’assenza d’acqua corrente a Batumi e la cosa mi sembra francamente
incredibile perché questa è una regione molto piovosa –ne avremo un’altra
dimostrazione fra poco quando comincerà a piovere a catinelle- e non è certo
l’acqua l’elemento che manca.
Fino ad ora non ti ho parlato di Pietro, un ragazzo
ucraino di 31 anni proveniente da Leopoli che abbiamo conosciuto ancora a
Tbilisi. Pietro è laureato in teologia e studia per diventare prete
cattolico-ortodosso. A quanto pare in Ucraina esiste una chiesa ortodossa
ubbidiente al Papa e a Roma, i cui preti possono sposarsi. Infatti Pietro è
fidanzato e mi racconta che la sua ragazza non è contenta che lui abbia
intenzione di diventare prete. E’ qui in vacanza e gli piace fotografare con la
sua macchina digitale. In un ottimo italiano – a conferma della particolare
predisposizione di questi popoli per le lingue straniere – le peripezie della
propria famiglia deportata in Siberia ai tempi del comunismo e di come la propaganda
l’avesse convinto, quand’era bambino, del fatto che i suoi coetanei occidentali
se la passavano veramente male anche per colpa dei grandi che impedivano loro
di trasferirsi nel paradiso comunista e di come lui li compiangeva (insieme ai
suoi amici) perché non potevano godere della loro stessa vita. E’ molto
piacevole parlargli assieme. Così lo fornisco del mio indirizzo di posta
elettronica per poter continuare a dialogare con lui.
Con suor Loredana andiamo a fare un giro per Batumi sotto
una pioggia torrenziale che non ci permette di scendere dall’autovettura per
cui ci accontentiamo di vedere scampoli di città da dietro i vetri della Jep.
E’ ora di partire per Tbilisi e, quindi, torniamo alla chiesa dove ci attendono
don Bragantini e don Pasotto. Domani rientriamo in Italia. Dimenticavo, oggi è
il primo giorno di scuola in Adjara ed è bello vedere i bambini con i grembiuli
recarsi a scuola a volte accompagnati dai loro genitori (in questo caso tutto
il mondo è paese). Don Gabriele ci dona inaspettatamente una bella “icona”. La
mamma ed io siamo commossi e tu sai perché.
Partiamo, veloci. Ci fermiamo dopo un’ora a mangiare in un
ristorante bello e confortevole costruito vicino al fiume che costeggia la
strada per Kutaisi. Si mangia un’altra volta il loro buon cibo e si paga
pochissimo, l’equivalente di 2 euro e mezzo a testa. Ripartiamo e ci fermiamo
nuovamente sulla strada per comprare da un uomo nocciole unite da un filo
bianco per cucire e coperte da uno strato di melassa d’uva. Lasciamo 5 lari
all’uomo che ci domanda la nostra provenienza. Italianski, diciamo. Lui fa
segno che ha capito e gli s’inumidiscono gli occhi. Le nocciole sono buone e me
ne mangio un’intera fila.
Fermata a Kutaisi, alla chiesa cattolica per i grazie e i
saluti reciproci.
Dimenticavo un’altra fermata in una piccola, suggestiva,
artisticamente pregevole chiesa ortodossa situata anch’essa vicino al fiume e
in piena fase di risanamento edilizio. Quando arriviamo una macchina della
polizia con alla guida un gendarme è ferma davanti all’ingresso della cinta
muraria. Boh. Entriamo in chiesa: l’interno è affascinante, pieno di affreschi.
Dentro c’è un altro poliziotto che sta accendendo una piccola candela. Poi esce
e pochi istanti dopo ecco entrare il gendarme guidatore che compie la stessa
operazione del collega. Avvenimento incredibile soltanto fino a 15 anni fa!
Durante il viaggio verso est il tempo migliora e la
Georgia si veste dei suoi abiti migliori: le montagne con i loro colori, le
valli così verdi e piene di alberi e bestiame al pascolo. E’ bella la Georgia e
oggi, tra l’altro, possiamo ammirare tutto ciò che all’andata l’oscurità ci
aveva impedito di vedere.
Sullo sfondo si staglia una città: è Gori, il luogo natale
di Stalin. Ci addentriamo nell’abitato, degradato come tutti gli altri e come
gli altri privo di un qualsiasi minimo riferimento che faccia pensare al
passato comunista. Arriviamo sotto la fortezza, enorme, di età medioevale,
abbarbicata su una rocca veramente straordinaria per posizione e imponenza. Al
centro della città è nato e vissuto per 15 anni Stalin. Ai tempi d’oro (dello
stalinismo) hanno provveduto a demolire il quartiere originario lasciando in
piedi solo la casa di Stalin. Sopra vi hanno costruito una specie di mausoleo
sul cui soffitto, ai quattro angoli, rimangono quattro “falce e martello”,
unici cimeli comunisti che abbiamo visto. Dietro il mausoleo c’è un altro
palazzo che contiene il museo dedicato a Baffone. A fianco, il vagone
ferroviario verde con la stella CCCP e il numero 3878 usato per circa 10 anni
come casa e ufficio dal dittatore nei suoi spostamenti attraverso l’impero
sovietico. Ora anche qui è tutto piuttosto maltenuto e fatiscente – solo la
casetta si salva – e non ci sono poliziotti o addetti alla sorveglianza o
guardie d’onore, ai tempi del comunismo chissà quanto abbondanti, ad
allontanare i due innamorati che si scambiano tenerezze seduti proprio sul
muretto che delimita il mausoleo. Alcune ragazzine ci guardano e alla fine,
forse perché ispiriamo loro fiducia e simpatia, si convincono a farsi
fotografare con noi. Peccato che non abbiano la posta elettronica (ma da quel
che capiamo non è per loro qualcosa di sconosciuto), mi sarebbe piaciuto
mandargliele. Don Giuseppe ci fa un ulteriore regalo. Passiamo davanti alla
statua di Stalin (non è questo il regalo) che ancora incombe nel centro della
piazza principale di Gori (60mila abitanti) e, dopo aver percorso tre/quattro
chilometri in mezzo alla campagna veniamo a trovarci su un belvedere strepitoso
dal quale si ammirano il fiume che scorre zigzagando sulla piana verdeggiante e
sullo sfondo, là sulla collina che si allunga all’orizzonte una città rupestre,
E’ Uplistsikhe, città, dicono, fondata nel 1000 a.C., e che nel momento del
massimo splendore, tra il VI e il I secolo a. C., aveva 20mila abitanti.
Peccato vederla da lontano perché non c’è il tempo. Ma in un altro viaggio
torneremo senz’altro a visitarla.
Ora bisogna veramente andare: ci aspettano a Tserovani per
la cena e per il breve riposo notturno. Domani mattina sveglia alle 2 e partenza
per l’aeroporto.
Ed è quello che facciamo, dopo aver
salutato tutti i nostri ultimi buoni amici: don Giuseppe, la cuoca del
seminario che ha perso pochi giorni fa il bambino che aveva in grembo) e John,
l’autista amante della musica punk.
Questa, Tommaso, è la Georgia che ora è anche il
tuo paese.