IL GOVERNO DELLA TUTELA DELLA SALUTE
In questi ultimi anni scarseggiano, per non dire che mancano totalmente, documenti di politica sanitaria di ampio respiro nei quali si avvertano chiari i valori fondanti e altrettanto chiari gli strumenti e gli obiettivi che si pensa di raggiungere.
A tal proposito, i partiti e le coalizioni, anche
attraverso i loro bracci culturali (fondazioni, circoli, associazioni, ecc.),
sono alquanto mal messi.
Non si parla ovviamente della cosiddetta Casa delle
Libertà, il cui ragionamento più articolato sembra essere ancor oggi
rappresentato dalla famosa frase del Cavaliere: “Faremo in modo che anche i
poveri possano farsi curare nelle case di cura private come i ricchi.”,
pronunciata nell’immediata vigilia delle elezioni 2001, a dimostrazione che la
crassa ignoranza se ben propagandata può far stravincere le elezioni.
Si parla della coalizione di centrosinistra, rissosa
e inconcludente più che mai, nella quale quando si parla di diritto alla tutela
della salute esiste una variegata diversità di opinioni tale da scoraggiare
qualunque persona abbia la buona volontà di volere approfondire l’argomento. In
questo contesto e a riprova della delicatezza della situazione, la rivista
“Italianieuropei”, organo dell’omonima fondazione presieduta da Massimo D’Alema
e Giuliano Amato, ha affidato il compito di individuare percorsi e di delineare
strategie al professor Ignazio Marino, valentissimo medico che per inciso non
lavora nemmeno in Italia ma negli Stati Uniti, a Philadelphia, dove è il
responsabile del Centro Trapianti del Jefferson Medical College, incarico di
prestigio in una sede di prestigio ma che certamente non lo aiuta a capire, e
si nota ampiamente leggendo il suo articolo “Sanità italiana sotto esame: quale
terapia?” – che pubblicheremo a breve -, i bisogni “politici” della tutela
della salute in Italia.
Così, ancora una volta, come spesso è capitato negli
ultimi anni, sono le categorie – non chi in democrazia ha titolo e
responsabilità per farlo - a indicare, nel bene e nel male, mali e rimedi della
sanità italiana.
Lo hanno fatto ultimamente con un lungo e articolato
documento, intitolato “Per
un Servizio Sanitario Nazionale equo e solidale: un impegno comune per un obiettivo
condiviso” (cliccare sull’articolo per leggerlo) tutte le
Organizzazioni sindacali del personale medico e laureato del Servizio Sanitario
Nazionale.
Un articolato, e per certi aspetti sorprendente,
peana al Servizio Sanitario Nazionale, tenuto conto della presenza in questo elenco
di sottoscrittori di sigle ed esponenti sindacali che ideologicamente e
concretamente hanno lavorato e lavorano – secondo il nostro modesto parere
personale –in direzione esattamente opposta, e in modo particolare un peraltro
altrettanto scontato peana a tutte le categorie firmatarie.
Ad una subitanea riflessione verrebbe da domandarsi
quali sono le finalità di questo documento e per quanto resisterà la ritrovata
intesa dei laureati medici e non medici dipendenti del Servizio sanitario. Si
vedrà abbastanza presto.
In questa sede preme invece di più evidenziare e
argomentare su una parte del documento dalla chiarezza non straordinaria ma
sufficiente a rimettere al centro dell’attenzione e della discussione due degli
elementi fondamentali dei decreti legislativi 502/92 e 517/93 e cioè la
separazione tra ospedale (Azienda ospedaliera) e territorio (Azienda sanitaria
locale o, raramente, Unità locale sociosanitaria) e l’istituzione della figura
del Direttore generale come organo monocratico responsabile in toto della
direzione e gestione della cosiddetta Azienda sanitaria.
A tale proposito è giusto ricordare che l’ideatore e
realizzatore di queste cosiddette innovazioni è stato il ministro De Lorenzo,
uno dei più convinti assertori– scopiazzando la Thatcher - dell’ingresso del
mercato in sanità (attraverso la demenziale teoria dell’ospedale che vende
prestazioni e dell’asl che le compra) e uno dei maggiori capipopolo nella
campagna contro la presenza della politica spendacciona e ladra in sanità
(ricordate gli esecrati Comitati di gestione?).
Di sfuggita, riguardo a quest’ultimo punto, è
altrettanto giusto ricordare – e magari riflettere – che De Lorenzo fece una
fine ingloriosa proprio sulle motivazioni antipolitiche – imbracciate da altri
furbacchioni - per le quali era diventato capopopolo.
Rimane il fatto che finora – nonostante i timidi e
arruffati tentativi contenuti nel decreto 229/99, altrimenti detto “Bindi”,
nessuno è riuscito a scalfire la vera vittoria politica di De Lorenzo
rappresentata dai due punti sono richiamati.
Tutto ciò nonostante l’esperienza pluriennale – dal
1995 ad oggi – abbia dimostrato che le motivazioni che sono state alla base dei
provvedimenti legislativi del 1992 sono a dir poco insussistenti.
La spesa sanitaria di parte corrente ha avuto un calo dell’ordine dell’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) tra il 1992 e il 1995, ricominciando nuovamente a crescere fino a recuperarlo interamente alla data odierna. Sperando nella veridicità dei dati economici attuali – il fai da te cosiddetto federalista ha travolto la fondamentale differenza tra l ‘ambito pubblico e quello privato: il controllo - e ignorando eventuali geremiadi moralistiche, è dimostrabile che questo andamento è determinato prevalentemente da provvedimenti legislativi (compartecipazione alla spesa sanitaria proposti da vari governi), da contratti del personale rinnovati e, in misura minore, da riorganizzazioni nel settore dei beni e servizi (ad esempio i cosiddetti appalti esterni, altrimenti detti con oscura e abusata parola esternalizzazioni).
La spesa per investimenti ha subito un preoccupante
rallentamento se non una fermata in termini di ammodernamento della rete
sanitaria, ospedaliera e territoriale, delle tecnologie e della formazione, in
presenza tra l’altro di contraddizioni, se si vuole parlare in termini
eufemistici, o di veri e propri sprechi scandalosi, quali i 3.000 miliardi di
lire che, in ossequio alla cosiddetta esclusività di rapporto medico, si
darebbero dovuti spendere per procurare strutture ai medici che intendono
praticare la libera professione intramoenia.
La cosiddetta moralizzazione della sanità con la
cacciata dei politici ha portato alla sublimazione della partitocrazia
attraverso il ruolo oggi riservato ai Direttori generali il cui principale, e
mal tollerato nei più seri, compito è di dare copertura tecnica a
scelte, sussurrate dal potente (o presunto tale) di turno, caratterizzate da
clientelismo, mediocrità e da una corruttela morale generalizzata.
Detto questo si capisce perché il documento dei
laureati medici e non medici, sperando che costituisca una scelta seria e non
determinata dai rinnovi contrattuali e convenzionali, nella parte politica
dedicata all’esigenza di un “nuovo riordino della sanità” ponga al primo posto
due esigenze: un nuovo assetto istituzionale dell’Asl, definita vera unità
sanitaria locale unificata, nella quale assegnare un ruolo molto più
significativo agli enti locali e un riequilibrio dei poteri del direttore
generale per garantire una maggiore collegialità nella gestione della “nuova
Asl”.
Leggendo il documento con particolare attenzione si
coglie l’importanza delle parole scritte ma soprattutto di quelle non
scritte. Ecco, in questo documento non viene mai la parola “azienda
ospedaliera” o “azienda sanitaria” che per un lungo periodo sono state il
fulcro della teoria della balzana separazione tra i già citati produttori
(ospedali) e consumatori (asl) che hanno dato vita anche a tragicomici
intrattenimenti sui cosiddetti volumi di prestazioni contrattati tra le due
entità. Come se al cittadino malato o che si ritiene presunto tale che
necessita di un intervento l’operatore sanitario dovesse rispondere di
pazientare dovendo egli chiedere al Ufficio “Marketing e Clienti” – sì, perché
al giorno d’oggi, non si sta scherzando, esistono anche questi - per sapere se
la prestazione rientra o no nel volume contrattato e quindi eseguirla.
Per coloro, pochissimi in verità, che hanno
predicato nel deserto e agito nelle istituzioni rifiutando l’assetto
“mercantilistico” del servizio sanitario pubblico, opponendosi anche agli
strumenti attuativi di questa scelta e schierandosi contro il conformistico
assalto alla diligenza che per anni ha caratterizzato il mondo interessato per
ruolo e funzioni della sanità, quello rappresentato da documento è un buon
segnale, certamente da non sopravvalutare, di un cambiamento che sta
intervenendo nell’ambiente difficile e frastagliato, ma importante, dei
laureati medici e non medici.
Tenendo in debito conto che, ancora una
contraddizione, proprio lo schieramento di centrosinistra, che dovrebbe essere
un naturale difensore del valore della politica come servizio reso alla
società, è il più restio o imbarazzato – intriso com’è ancora di un moralismo a
buon mercato - a recuperarne ruolo e importanza in un settore di primario
interesse sociale e quindi pubblico come quello del diritto alla tutela della
salute.
La speranza è che ciò non
dura ancora per molto.
Roberto Buttura