APPUNTI
PER UNA STORIA DELLA SANITA’ ITALIANA
In
via preliminare è necessario tenere conto che, mentre esiste copiosissima
letteratura riguardante gli aspetti scientifici e assistenziali della medicina,
sono pochi, anche se d’ottima qualità, gli studi e le pubblicazioni dedicati a
ricostruire la storia della sanità, e cioè dell’insieme di conoscenze e delle
applicazioni inserite in un determinato quadro politico e sociale, che ha
trasformato una scienza a carattere squisitamente individuale in una grande e
complicata organizzazione a tutela di tutti i cittadini.
La
difficoltà di collegare i fili di una vicenda che segue passo passo i
cambiamenti politici e sociali, fa correre il rischio, in una situazione qual è
l’italiana, di decidere, anche sull’onda di legittime rivendicazioni, leggi e
provvedimenti di cui, in sede d’elaborazione, non si è sufficientemente
approfondito l’impatto politico e sociale.
Per
questo vale la pena di ripercorrere, sia pur brevemente, la storia della sanità
nel nostro Paese, dando elementi utili per capire la sua evoluzione
istituzionale ed organizzativa, con il fine di riflettere su temi che potranno
influire in modo tangibile sulla futura legislazione concernente la tutela della
salute e, quindi, sui sistemi organizzativi.
Cenni
storici di carattere generale
Due
sono le “Magne Carte”, riferimento per l’Italia dal 1861, anno dell’Unità
nazionale.
La
prima, lo Statuto albertino, promulgato il 4 marzo 1848 a Torino, capitale dell’allora
Regno di Sardegna, diventato Statuto del Regno d’Italia, in vigore, tranne
durante il fascismo quando la parte relativa ai diritti “civili” individuali (libertà personale) e collettivi (libertà di stampa e di adunanza) fu
sospesa, fino al 2 giugno 1946. In esso non è contenuto alcun riferimento a
diritti “sociali” individuali e collettivi.
La seconda, la Costituzione della
Repubblica Italiana, è vigente dal 1 gennaio 1948.
In essa, sono contenuti due
articoli, il 2 (La Repubblica riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.) e il
3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo delle persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.), che sono
annoverati tra i principi fondamentali.
Ad essi fanno riferimento due
articoli, il 32 (La Repubblica tutela la
salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività,
e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana) e il 117 (La Regione emana per
le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali
stabiliti dalle leggi dello Stato, semprechè le norme stesse non siano in
contrasto con l’interesse nazionale e con quello delle altre Regioni: -….. -beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria
ed ospedaliera; -…..), che costituiscono i capisaldi del diritto
etico-sociale del cittadino alla tutela della salute.
A completare il quadro delle
garanzie sociali è l’articolo 38 (Ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto
che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in
caso di infortunio, malattia, invalidità o vecchiaia, disoccupazione
volontaria. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed
istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera.),
a cui è stata data attuazione organica con la “Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, approvata
definitivamente dal Senato il 18 ottobre u.s.
La
responsabilità politica nella sanità: riferimenti legislativi.
Il Ministero dell’Interno, a
livello centrale, e i prefetti e sindaci, a livello locale, detengono la
competenza organizzativa dell’assistenza sanitaria. In particolare presso Ministero,
nel 1888, viene istituita la Direzione generale di Sanità. E’ il primo segnale
dell’importanza e specificità che assumono i problemi della salute nel Regno
d’Italia. Ad essa sono assicurate competenze e responsabilità, e resta attiva e
funzionante fino al 1945.
Con decreto luogotenenziale 12
luglio 1945 n. 417, è istituito l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità
(ACIS), le cui funzioni comprendono “la tutela della Sanità Pubblica, il
coordinamento e la vigilanza tecnica sulle organizzazioni sanitarie e sugli
enti che hanno lo scopo di prevenire e combattere le malattie sociali.” Esso
sostituisce la Direzione generale di Sanità.
Con leggi costituzionali, in
adempimento all’articolo 116 della Costituzione, che prevede l’attribuzione di
forme e condizioni particolari di autonomia, sono istituite le Regioni:
Sardegna, Sicilia e Trentino Alto Adige
(1949), Valle d’Aosta (1950), Friuli Venezia Giulia (1964). Per quanto
riguarda il Trentino Alto Adige, per effetto di accordi internazionali, molte
delle competenze regionali sono trasferite alle Provincie Autonome di Bolzano
(1955) e Trento (1960), che assumono poteri legislativi.
Con legge 13 marzo 1958 n. 296 viene istituito il
Ministero della Sanità. Esso subentra all’ACIS e corrisponde in pieno alle
pressioni provenienti da varie parti che da tempo chiedono una direzione unica
ed articolata della politica sanitaria. Il Ministero è coadiuvato nelle proprie
funzioni dal Consiglio superiore di sanità (di carattere consultivo) e
dall’Istituto superiore di sanità (di carattere tecnico-scientifico) e, a
livello periferico, dagli uffici dei medici e veterinari provinciali, uffici
sanitari dei comuni e consorzi dei comuni e da uffici sanitari specifici (ad
esempio per le zone di confine).
L’attuazione completa di quanto disposto dalla
Costituzione (il capo VIII delle disposizioni transitorie e finali indica entro
un anno dalla sua entrata in vigore l’indizione delle elezioni dei consigli
regionali) sull’istituzione delle 15
Regioni a statuto ordinario, ha un percorso politicamente molto accidentato.
Basti pensare che dal 1 gennaio 1948 debbono passare
quasi 16 anni prima che, con la legge costituzionale 27 dicembre 1963 n. 3, si
modifichi l’articolo 131 della Costituzione relativo alla loro costituzione, e
ben 20 anni prima dell’approvazione, passando attraverso una furibonda
battaglia parlamentare, della legge 17 febbraio 1968 n.108 “Norme per
l’elezione dei consigli regionali delle regioni a Statuto ordinario.”, consigli
successivamente eletti con la tornata amministrativa del novembre 1969. Le
Regioni a statuto ordinario entrano nel pieno delle funzioni il 1 gennaio 1970.
Così, almeno dal punto di vista formale si compie il
disegno costituzionale.
Da beneficenza a diritto: riferimenti legislativi
prima della Costituzione.
L’unità
d’Italia determina l’esigenza di rendere uniforme su tutto il territorio
nazionale la legislazione, tra l’altro,
anche nel settore dell’assistenza sanitaria ed ospedaliera.
Tale
opera è attuata con la legge 20 marzo 1865 n. 2248, della quale è parte
integrante e costituisce legge autonoma il cosiddetto allegato C, che
rappresenta la prima legge organica sulla sanità. Letta con gli occhi d’oggi,
può apparire poca cosa, ma in tempi nei quali l’assistenza sanitaria ha le caratteristiche
dell’azione di carità sostenute finanziariamente da lasciti e opere di
beneficenza, è a buon titolo considerata come un punto di riferimento per il
futuro.
Essa
è sostituita dalla legge 22 dicembre 1888 n. 5849, rivolta soprattutto ai
settori dell’igiene e della polizia sanitaria e da altre leggi di grande
importanza come la n. 6972 del 17 luglio 1890, comunemente nota come legge
Crispi, di portata storica per il mondo della sanità e dell’assistenza.
Con
tale provvedimento, gli ospedali, le case di riposo, le opere pie, che una
statistica del 1896 stimava in oltre 23.000 con un patrimonio superiore ai due
miliardi, sono trasformati da enti privati in Istituti pubblici di assistenza e
beneficenza (Ipab). Il provvedimento legislativo è in parte motivato dalla
volontà dello stato liberale di sottrarre all’ambito cattolico istituzioni di
grande importanza dal punto di vista del controllo sociale.
L’operazione non sortisce grandi
effetti concreti in termini di miglioramento dell’assistenza, ma è in ogni modo
importante perché fa emergere e disciplina l’ormai diffuso senso comune del
diritto all’assistenza ospedaliera, stabilendo che i requisiti per potervi
beneficiare sono costituiti e riconosciuti per legge nella povertà del malato e
nell’urgenza del ricovero. A tale proposito, occorre precisare che gli ospedali
di quel tempo sono strutture che assolvono a malapena alla funzione
assistenziale, tanto sono arretrati strutturalmente ed estranei ai progressi e
alle conquiste delle scienze mediche e dell’igiene.
Alla
legge Crispi seguono, nell’arco di circa vent’anni, altre leggi importanti
quali la legge 14 febbraio 1904 n. 36 sui manicomi e gli alienati, il testo
unico approvato con regio decreto 1 agosto 1907 n. 603 recante il coordinamento
delle precedenti disposizioni, la legge 10 luglio 1910 n. 455 sugli ordini
professionali sanitari, la legge 22 maggio 1913 n. 468 sull’ordinamento delle
farmacie e il decreto legislativo 3 dicembre 1923 che attua un considerevole
decentramento di competenze.
Successivamente,
il testo unico, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, in attuazione alla
legge di delega 6 luglio 1933 n. 947, coordina, in circa quattrocento articoli,
il complesso dei provvedimenti precedenti e diventa il punto di riferimento in
materia sanitaria fino alla entrata in vigore della Costituzione della
Repubblica Italiana.
Nel
dopoguerra 1915-1918, l’assistenza sanitaria che si concentra quasi
esclusivamente negli ospedali conosce per la prima volta una grande crisi
finanziaria. Per ovviare a ciò, diverse amministrazioni, che si reggono sui
sempre più insufficienti contributi di spedalità dei comuni e delle opere pie,
si muovono con decisione sulla strada dell’offerta di servizi a pagamento agli
“abbienti”, staccando sempre più l’ospedale da una concezione caritatevole,
migliorandone la struttura edilizia, dotandolo di attrezzature diagnostiche e
strumentali e mettendolo sostanzialmente in mano, attraverso una politica di
esasperata incentivazione della cosiddetta libera professione privata che inevitabilmente
attira gli abbienti, alla categoria medica.
Ciò
nonostante, a cavallo degli anni ’30, la crisi finanziaria dell’assistenza
sanitaria s’allarga, coinvolgendo le amministrazioni locali e dissestando molti
ospedali. A questo punto il regime fascista, cambia atteggiamento e decide di
dare il via, nel quadro della politica cosiddetta corporativa, ad un sistema
assicurativo-previdenziale in grado di assicurare, tra l’altro, l’assistenza
sanitaria ai lavoratori. Con regio decreto 6 luglio 1933 n. 1033, viene così
istituito l’Istituto nazionale per le assicurazioni contro gli infortuni sul
lavoro (Inail), con regio decreto 4 ottobre 1935 n. 1825 l’Istituto nazionale
della previdenza sociale (Inps), con legge 19 gennaio 1942 n. 22 l’Ente
nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali (Enpas) e con
legge 11 gennaio 1943 n. 138 l’Istituto nazionale di assicurazione contro le
malattie (Inam). Alla legislazione già citata, si sono poi aggiunti nel tempo
vari provvedimenti di carattere regolamentare che hanno disciplinato l’attività
dell’organizzazione sanitaria e delle professioni che in essa concorrono.
Da beneficenza a diritto:
riferimenti legislativi dopo la Costituzione
Mentre,
nel 1947, in Gran Bretagna il governo Attlee dà corpo organico alla diritto
alla tutela della salute, istituendo il Servizio Sanitario Nazionale (NHS, National Health Service), in Italia
prosegue la politica di sviluppo della protezione assicurativa-providenziale
contro le malattie e gli infortuni.
Con
altre leggi sono istituiti numerosi enti mutualistici per varie categorie di
professionisti: pensionati dello stato (1953), coltivatori diretti (1954),
artigiani (1956), commercianti (1960), ai quali si aggiungono un’altra miriade
di enti minori come, ad esempio, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza
per gli impiegati agricoli e forestali e l’Istituto di previdenza e mutualità
tra i magistrati. Come se ciò non bastasse, continuano a proliferare piccolissime
realtà mutualistiche di fabbrica o di azienda.
Ciò
determina l’apparire di forme assistenziali profondamente diverse tra loro,
incontrollabili sia sotto il profilo della qualità delle prestazioni erogate
sia della spesa sanitaria.
Le
carenze e i buchi neri di un’assistenza sanitaria così organizzata sono oggetto
dei lavori della “Commissione D’Aragona”, dal nome del suo presidente, la quale
nel 1948, quindi nel bel mezzo del percorso mutualistico, propone la fusione
delle varie gestioni in un unico ente con l’estensione della previdenza contro
le malattie a tutti i lavoratori, autonomi o indipendenti che siano, mantenendo
comunque l’esclusione di disoccupati e sottoccupati, cioè appartenenti alle
categorie di cittadini più bisognevoli, definiti “poveri”, garantiti in qualche
modo dall’assistenza comunale. La proposta non trova ascolto per lo scontro
d’interessi tra lavoratori e datori di lavoro e per la caratterizzazione di
sottogoverno che ha in sé il sistema mutualistico, ed è abbandonata.
Il
rafforzamento delle cosiddette “casse mutue di previdenza contro le malattie”, ognuna rigorosamente all’oscuro
delle attività dell’altra (prova ne è che un’indagine del Ministero della
Sanità rivela che le persone assistite ammontano a 68.427.112, sedici milioni
in più di quanto conta l’intera popolazione italiana), determina, insieme ad
una positiva seppur caotica espansione
delle risposte ai bisogni sanitari della società italiana, che sta rapidamente
conoscendo “il benessere”, una anomala frammentazione delle strutture e una
dispersiva utilizzazione dei professionisti. In questo modo, come previsto, si
alimenta la sperequazione e la disuguaglianza sociali, tutto il contrario cioè
di quanto stabilisce la Costituzione, e, in secondo luogo, si inasprisce pesantemente
il fabbisogno finanziario atto a mantenere funzionante l’intero sistema.
Nell’ottobre
1964, la Commissione per la riforma ospedaliera, presieduta dal clinico
chirurgo Achille Dogliotti, perviene a queste conclusioni, avversate da coloro
che sostengono che non va fatta la parte prima del tutto,: “La riforma
sanitaria, pur dovendo inquadrarsi nella più vasta riforma sanitaria, ha una
sua propria menzione costituzionale che vale a sottolinearne l’urgenza e
l’importanza…Occorre procedere alla razionalizzazione del settore con il
decentramento alle Regioni delle funzioni normative e di controllo…Il
finanziamento del servizio dovrà essere assicurato con una quota parte del
bilancio statale.”
Al
di là delle opinioni, il documento coglie i due elementi fondamentali
indispensabili per una riforma sanitaria che ripari alle insufficienze e agli
sprechi del sistema mutualistico, ampliando l’assistenza fino a rendere
universale il diritto alla tutela della salute: il decentramento delle
competenze e delle responsabilità alle Regioni, lasciando allo Stato le
funzioni di coordinamento e di controllo e l’istituzione di un fondo derivante
dalla fiscalità generale.
A
riguardo del primo aspetto bisogna ricordare che l’istituzione delle Regioni
ordinarie, perché di queste si tratta, contrariamente a quanto stabilito dalla
Costituzione, fino a questo momento non è mai avvenuta, e negli anni sessanta,
periodo del primo centro sinistra, la battaglia politica su questo tema è
particolarmente aspra, essendo numeroso, trasversale nella maggioranza e
nell’opposizione e determinato a non cedere, il fronte moderato centralista.
Non
è da annoverare, quindi, tra le coincidenze il fatto che due importanti leggi
di riforma della Sanità e di riforma dello Stato abbiano visto la luce a pochissimi
giorni l’una dall’altra, al termine di percorsi legislativi estremamente
difficili e tormentati.
Nel
febbraio 1968, entrano, infatti, in vigore la legge 12 febbraio 1968 n. 132
“Enti ospedalieri ed assistenza ospedaliera”, meglio nota come “legge
Mariotti”, e la già ricordata legge 17 febbraio 1968 n. 108 “Norme per le
elezioni dei consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario.”
La
legge 132/68 istituisce gli enti ospedalieri con finalità sanitarie vaste,
classifica gli ospedali per specialità e per importanza (zonali, provinciali,
regionali), avvia la programmazione ospedaliera attribuendone la competenza
alle (istituende) Regioni, costituisce il Fondo nazionale ospedaliero (le
ultime due disposizioni sono le più importanti ai fini dei successivi
sviluppi). Nel marzo 1969, in base a delega contenuta nella 132 sono emanati
tre decreti altrettanto importanti riguardanti: l’ordinamento interno degli
enti ospedalieri, l’ordinamento interno dei servizi di assistenza sanitaria
delle cliniche e degli istituti universitari di ricovero e cura e sullo stato
giuridico del personale.
La
legge 108/68 rende concreta l’istituzione delle Regioni e l’applicazione
dell’articolo 117 della Costituzione.
Da beneficenza a diritto: lo Stato negli anni
della transizione
Da
questo momento e fino alla legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del
Servizio Sanitario Nazionale, la legislazione dello Stato, sia pure in modo non
rettilineo e incontrando ostacoli piuttosto pesanti, non essendo stata emanata
una legge quadro di principi, imbocca la strada del trasferimento alle Regioni
delle competenze in materia di sanità, cercando contemporaneamente di chiudere
il problema rappresentato dall’enorme situazione debitoria nella quale versano
gli enti mutualistici.
Nel
quadro dei provvedimenti di attuazione dell’ordinamento regionale, viene
emanato il D.P.R. 14 gennaio 1972 n. 4, con il quale viene disposto il
trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative in
materia di assistenza sanitaria e ospedaliera, insieme al relativo personale e
uffici. Le competenze rimaste allo Stato sono di carattere residuale.
Successivamente,
in attesa della riforma, è emanato il decreto legge 8 luglio 1974, n. 264,
trasformato nella legge 17 agosto 1974 n. 386, che contiene norme di grande
importanza quali le disposizioni per l’estinzione dei debiti delle mutue,
l’istituzione del Fondo sanitario per l’assistenza ospedaliera, il
trasferimento alle Regioni dei compiti d’assistenza ospedaliera, lo
scioglimento dei consigli d’amministrazione degli enti mutualistici sostituiti
da gestioni commissariali.
Con
la legge 29 giugno 1977 n. 349, che sopprime in via definitiva le mutue, e con
il D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, attuativo della legge 22 luglio 1975 n. 382,
che provvede alla integrale devoluzione alle Regioni della competenze definite
nell’articolo 117 della Costituzione, sono compiuti altri passi fondamentali
verso l’ormai prossima legge 833/78.
Da beneficenza a diritto: le Regioni negli anni
della transizione
In via preliminare, vale la pena di rilevare che,
fino al 1970, le Regioni autonome non giocano alcun ruolo nel settore socio
sanitario. Friuli Venezia Giulia e Sardegna non emanano leggi, la Sicilia
promulga nel 1949 una timida leggina che istituisce le unità ospedaliere
circoscrizionali, il Trentino Alto Adige (che si è reso protagonista
dall’adozione di alcune leggi di costituzione di “casse malattia”) e la Valle
d’Aosta verso la fine del 1969 approvano ed emanano leggi in applicazione della
legge 132/68. Ciò dimostra che solo con l’istituzione delle Regioni a statuto
ordinario si avvia effettivamente l’azione di decentramento amministrativo e di
regionalizzazione dello Stato, come previsto dalla Costituzione.
Negli otto anni (1970 – 1978) ante riforma, le
Regioni a statuto ordinario, le altre almeno in termini amministrativi avevano
già largamente superato il rodaggio, si impegnano nella costruzione e nel
consolidamento interno all’ente.
Da questo punto di vista, è interessante osservare
la legislazione regionale in uno dei settori, l’organizzazione socio sanitaria,
più significativi nei quali le Regioni tutte esplicano la loro competenza e
responsabilità.
Dal monitoraggio del periodo ricordato nel titolo
risulta che il maggior lavoro dei nuovi consigli consiste complessivamente nel
preparare giudiziosamente la strada alla riforma, approvando leggi regionali in
applicazione a leggi o decreti dello Stato, in un modo, salvo errori, così
sommariamente classificato:
·
la legge 12 febbraio 1968 n. 132 è espressamente
applicata dalla Regione Siciliana nel 1973;
·
il DPR 14
gennaio 1972 n. 4 è attuato attraverso
la legislazione ordinaria o recepito tramite semplice atto amministrativo;
·
le norme di attuazione del d.lgs. 8 luglio 1974 n.
264 convertito in legge 17 agosto 1974 n. 386, diventano leggi regionali nel
primo semestre del 1975, ad eccezione della Sardegna che provvede all’inizio
del 1977, e della Toscana, Umbria e Veneto che optano ancora per l’atto
amministrativo;
·
il DPR 23 luglio1977 n. 616 in attuazione della
legge 21 luglio 1975 n. 382 trova varia applicazione nell’anno 1978.
Va espressa una valutazione
generale positiva sull’operato delle Regioni che, pur scegliendo strade a
misura di sensibilità e culture diversificate,
riescono ad approvare velocemente leggi di applicazione parecchio
complesse.
Va anche ricordato che, in
questi anni, nelle Regioni la legislazione sanitaria non si esaurisce nel
recepimento della normativa nazionale, ma in molti casi si propone in piena
autonomia di sviluppare i servizi socio sanitari al cittadino, attuando
interessanti forme di programmazione e di collaborazione con gli enti
locali.
Il diritto
alla tutela della salute: l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale
La legge 23 dicembre 1978 n. 833 costituisce
il corollario o, per meglio dire, il punto normativo terminale di un
progressivo lavoro di straordinaria modificazione dell’organizzazione sanitaria
nel nostro Paese.
Essa si basa sull’istituzione
di un Servizio Sanitario Nazionale, avente tre caratteristiche essenziali:
·
essere un sistema generalizzato o, per meglio
dire, universale, che riguarda la totalità della popolazione;
·
essere un sistema unificato perché un solo contributo
copre l’insieme dei rischi;
·
essere un sistema uniforme, poiché garantisce le
stesse prestazioni a tutti gli interessati.
Con questa legge, l’Italia,
vent’anni dopo la Gran Bretagna, rende concreta la salvaguardia del diritto dei
cittadini della salute, prevista dall’articolo 32 della Costituzione.
Il Servizio Sanitario
Nazionale, la cui attuazione spetta ai vari livelli della Comunità statuale
(Stato, Regioni e agli altri enti locali territoriali), è costituito dal complesso delle funzioni, delle
strutture, dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al
mantenimento ed al recupero della salute fisica o psichica di tutta la popolazione.
Alla gestione unitaria della
tutela della salute, come recita l’articolo 10, si provvede in modo uniforme
sull’intero territorio nazionale, mediante una rete completa di Unità sanitarie
locali, qualificate come il complesso dei presidi, dei servizi e dei servizi
dei comuni, singoli o associati, e delle comunità montane.
Il finanziamento del Servizio
Sanitario Nazionale avviene tramite il Fondo Sanitario Nazionale, determinato
annualmente con la legge di approvazione del bilancio dello Stato.
Ai sensi della legge, la
Regione è tenuta, subito dopo lo Stato, ad attuare il servizio e le sue
competenze e responsabilità traggono origine dall’attribuzione alle Regioni
dell’assistenza sanitaria ed ospedaliera, secondo quanto disposto dal più volte
richiamato articolo 117 della Costituzione. I suoi compiti legislativi ed
amministrativi sono di natura programmatoria, organizzativa, di finanziamento
delle Usl tramite il riparto del Fondo sanitario regionale e di vigilanza.
Considerati i tempi, l’opera di
decentramento dello Stato è da considerare imponente anche se le Regioni vedono
riconosciuto solo parzialmente il ruolo che la Costituzione loro assegna.
L’articolo 10, infatti, nella
prima parte riprende il dettato dell’articolo 117, ma nei successivi paragrafi
delimita in modo certosino le competenze regionali.
Le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano emanano l’applicazione della legge 833/78 nel
periodo compreso tra il 1979 e il 1981. Nello specifico, Lazio, Liguria,
Toscana e Umbria negli ultimi giorni del 1979, la Sardegna e la Provincia
autonoma di Bolzano nel 1981 e tutte le altre Regioni e la Provincia di Trento
nel 1980. Tre Regioni, Abruzzo, Friuli e Marche approvano due leggi di
applicazione.
Il Servizio
Sanitario Nazionale negli anni ‘80: luci ed ombre
Per realizzare il fine per il
quale è stata approvata, assicurare a tutti i cittadini l’esercizio del diritto
alla tutela della salute, la legge di riforma sanitaria deve essere attuata
attraverso un forte consenso politico e
sociale.
Le azioni di programmazione,
integrazione, riorganizzazione della rete dei servizi e d’eliminazione di
sprechi e sperperi non sono assolutamente facili, anche perché la realtà è
molto diversa da Regione e Regione e molte volte persino al loro interno. Il
rischio di non riuscire a riordinare il sistema ma di aggiungere altro a quanto
c’è, diventa tangibile.
La 833, quindi, trova immediati
ostacoli alla sua concreta applicazione. Essi sono determinati da alcune
carenze insite nello stesso impianto legislativo, che lascia spazio molto ad
una concezione assembleare dei poteri e favorisce la confusione tra le funzione
della parte politica e di quella tecnica, dall’opposizione di una grossa fetta
della classe medica, la categoria più importante, e dalla scelta di considerare
veramente universale solo il servizio a totale gratuità.
Oltre a ciò, nel 1981 emergono
pesantissimi buchi di carattere finanziario ereditati dagli enti soppressi e
s’avvia una campagna contro la spesa considerata eccessiva, contro la quale a
nulla vale informare che essa s’aggira mediamente per tutto il decennio attorno
al 6 % del prodotto interno lordo, molto al di sotto degli Stati Uniti (il 10
%) e della Germania (l’8 %). La campagna tende ad avvalorare la tesi che la
spesa sanitaria è improduttiva quanto va bene e costituisce fonte di spreco e
di sperpero quando va male, e come tale
rappresenta un costo intollerabile per i cittadini.
Ancora più importante è il
fatto che non si riesce a diminuire il disagio rappresentato dalle liste
d’attesa che si accumulano in generale tutti i servizi, creando fenomeni di clientelismo
che accrescono la rabbia dei cittadini.
Ciò nonostante, il Servizio
Sanitario Nazionale riesce a raggiungere risultati ragguardevoli anche per
merito delle Regioni che, in molti casi, allargano le competenze delle Ulss ai
settori socio sanitari e socio assistenziali. Le Usl (Unità sanitari locali)
sono trasformate in Ulss (Unità locali socio sanitarie), e sono loro affidate,
tramite legislazione regionale, importanti compiti di assistenza nel campo
dell’handicap, degli anziani e della famiglia.
Molte Regioni si dotano, molto
prima che ci riesca lo Stato – il primo Piano Sanitario Nazionale vede la luce
nel 1994 -, di loro Piani Sanitari o Socio Sanitari. E’ un fenomeno molto
consistente, fino ai primissimi anni ’90 appannaggio prevalentemente delle
Regioni settentrionali e poi esteso alle altre,
sotto la spinta della riorganizzazione e dell’espansione dei servizi:
l’Emilia Romagna (1981-1983,
1984-1986, 1990-1992, 1999-2001) approva quattro Piani Socio Sanitari;
il Piemonte (1982-1984, 1985-1987,
1990–1992), la Valle d’Aosta (1983-1985, 1988 come aggiornamento 1983-1985,
1997-1999), l’Umbria (1985-1987, 1989-1991, 1999-2001) e il Veneto (1984-1986,
1989-1991, 1996-1998) ne approvano tre;
l’Abruzzo (1990-1992,
1994-1996), la Basilicata (1990-1992, 1997-1999), le Marche (ottobre
1982-ottobre 1985, 1999-2001), la Toscana (1984-1986, 1999-2001) e la Provincia di Bolzano (1983-1985,
1988-1991) ne approvano due;
la Calabria (1995-1997), la
Campania (1987-1989), il Friuli (1985-1987), la Liguria (1989-1991), il Molise
(1997-1999), la Sardegna (1983-1985) e la Provincia di Trento (1993-1995) ne
approvano uno;
il Lazio, la Lombardia, la
Puglia e la Sicilia non se ne sono mai dotati.
Negli anni ’80, per eliminare
alcune distorsioni del sistema sono emanate piccole leggi di modifica della 833
e, tra l’altro, sono istituiti i ticket per frenare una spesa ed un consumo
sanitario, che si stanno facendo sempre più pesanti.
Questi provvedimenti non
servono ad allontanare dalla pubblica opinione, l’idea che il Servizio
Sanitario sia tra i maggiori responsabili del dissesto finanziario nel quale
versa il Paese.
Sbandierando lo slogan “meno
Stato, più mercato”, alcuni settori politici ed economici influenti premono, in
modo confuso, per un cambiamento della politica sanitaria in senso “americano”.
Nel 1987, la risposta, da parte
del governo consiste nella presentazione di un progetto di legge che introduce
nella sanità il concetto “aziendale”. L’intendimento è di scorporare i grandi
ospedali e trasformare le Usl in aziende
autonome finanziate dalle Regioni con il contributo integrativo dello Stato.
Il progetto di legge decade per
la fine della legislatura, come pure nella successiva un altro simile, che
contiene in più la scomparsa dei comitati di gestione. La politica ha distrutto
la sanità, fuori la politica dalla sanità, dichiara il ministro De Lorenzo,
ottenendo peraltro un buon consenso. Il suo progetto, comunque, non prevede lo
smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale ma la sua trasformazione in un’area
di “mercato sociale”, nella quale esistono i produttori (gli ospedali) e gli
acquirenti di prestazioni (le Usl per conto dei cittadini). E’ l’impostazione
che Margaret Thatcher ha dato alla sua controriforma sanitaria. Nei fatti
nemmeno la “Lady di ferro”, coriacea sostenitrice della deregulation
capitalistica, se l’è sentita di eliminare in Gran Bretagna il diritto alla
tutela della salute.
Gli anni
novanta: il Servizio Sanitario Nazionale modificato dai decreti legislativi
502/92 e 517/93
Il 1992 è l’anno della svolta.
Dopo le elezioni politiche di aprile, niente sembra essere come prima. Lo
scoppiare di tangentopoli e gli assassini di Falcone e Borsellino scuotono
l’opinione pubblica al punto da trasformare la crisi economica mondiale, che si
fa sentire anche nel nostro paese, in un prodotto del malgoverno.
Il 23 ottobre 1992 è emanata la
legge 421 “Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle
discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di
finanza territoriale”.
E’ un provvedimento
importantissimo, nel quale sono contenuti i principi informatori della Riforma
dello Stato, e dal quale, tra gli altri, scaturisce il decreto legislativo 23
dicembre 1992 n. 502, modificato dall’altro 7 dicembre 1993 n. 517.
I decreti, che si configurano
come mezzo per un miglior funzionamento del Servizio Sanitario, prevedono, tra
l’altro, che: il Piano sanitario nazionale sia approvato con determinati
obiettivi; l’Usl diventa azienda dotata di personalità giuridica pubblica,
guidata da un direttore generale, organismo a carattere monocratico; gli
ospedali aventi determinate caratteristiche sono scorporati e diventano
aziende; la proprietà patrimoniale è trasferita dai comuni o province alle
nuove aziende sanitarie che debbono dotarsi di una contabilità economica;
possano essere istituite forme di assistenza integrativa; il finanziamento del
SSN è sostanzialmente modificato; il Fondo Sanitario Nazionale, accantonata una
quota dell’1 % per il finanziamento di istituti o di iniziative, è ripartito
secondo elementi che diversificano la quota capitaria a seconda del livello dei
servizi posseduti dalla Regione con l’istituzione di un fondo triennale di
riequilibrio; le Regioni possano autofinanziarsi nel caso intendano erogare livelli
di assistenza sanitaria superiori;
possano essere attivati meccanismi di partecipazione dei cittadini.
Contrariamente all’opinione
comune, nei decreti non sono contenute le esasperazioni della cosiddetta
“libertà di scelta”, che hanno poi portato ad esaltare la tariffazione delle
prestazioni come l’espressione più calzante dell’introduzione nel nostro
sistema sanitario dei miti “azienda” e
“mercato”.
I decreti si distinguono,
invece, non solo per il trasferimento alle Regioni di tutte le competenze, ma
anche per la mancanza di vincoli, che non siano propri della legislazione
quadro.
L’articolo 2 dei decreti, dopo
aver ripreso nel comma 1 la dizione dell’articolo 117, nel comma 2 recita così: “Spettano in particolare alle
Regioni la determinazione dei principi sull’organizzazione dei servizi e
sull’attività destinata alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento
delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, le attività di
indirizzo tecnico, promozione e supporto nei confronti delle predette unità
sanitarie locali e aziende, anche in relazione al controllo di gestione e alla
valutazione della qualità delle prestazioni sanitarie.”
A ciò sono aggiunte ulteriori
competenze come, tra le altre, i rapporti con l’Università e la modificazione
del finanziamento e del riparto del Servizio Sanitario Nazionale, e, quindi, il quadro che ne esce rappresenta
il raggiungimento da parte delle Regioni della partnership o, per meglio dire,
di un rapporto paritario con lo Stato, sempre al fine di migliorare
l’organizzazione del Servizio stesso.
A tale proposito, c’è da dire
che le Regioni, per effetto della rivoluzione politica avvenuta dal 1994 e
della transizione che ne è seguita, non sono state in grado di apprezzare fino
in fondo il livello di autonomia insita nei decreti.
Basta monitorare la
legislazione regionale di applicazione al 502/517, le cui disposizioni entrano
in vigore dal 1 gennaio 1995, per avere dimostrazione del livello di
instabilità politica:
la Campania, l’Emilia Romagna, il
Friuli, il Lazio, la Liguria, la Puglia (il 28.12.1994), la Toscana e il Veneto
legiferano in tempo utile;
la Basilicata, la Sicilia, la
Valle d’Aosta e la Provincia di Trento producono una prima legge nel 1994
–Trento addirittura nel 1993-, e una seconda la Sicilia e Trento nel 1995, la
Basilicata e le Marche nel 1996, la Valle d’Aosta nel 1997;
il Piemonte e la Sardegna una
legge nel gennaio 1995;
il Molise e l’Umbria una prima
legge nel gennaio 1995 e una seconda rispettivamente nel 1997 e nel 1998;
l’Abruzzo una legge alla fine
del 1996 e la Calabria due sempre nel 1996;
la Lombardia produce
presumibilmente un atto amministrativo nel 1994 e la legge 31 nel 1997;
la Provincia di Bolzano sembra
produrre solo un atto amministrativo.
1995-2000: una
nuova riforma sanitaria
Nella Sesta legislatura delle
Regioni a statuto ordinario, come è stato sopra ricordato, molte di esse sono
governate da coalizioni formate da partiti e personale dotati di entusiasmo, ma
scarsamente omogenei dal punto di vista politico.
Di ciò ne risentono
complessivamente i rapporti istituzionali, ed in primo luogo quello tra Stato e
Regioni, mentre cresce, alimentato da continue polemiche, il dibattito sul
federalismo.
In questo clima, il governo di
centro sinistra, scaturito dalle elezioni dell’aprile 1996, da il via ad una
nuova riforma sanitaria, la cui discussione s’allunga nei tempi.
Il 30 novembre 1998 viene
promulgata la legge n. 419 “Delega al governo per la razionalizzazione del
Servizio Sanitario Nazionale e per l’adozione di un testo unico in materia di
organizzazione e funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale. Modifiche al
decreto legislativo 30 dicembre 1992 n.502”, a cui fa seguito il decreto
legislativo 19 giugno 1999 n. 229 “Norme per la razionalizzazione del Servizio
Sanitario Nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998 n.
419”, i cui cardini sono costituiti dalla esclusività del rapporto di lavoro
per i medici e dal potenziamento del ruolo del territorio e della formazione.
Per le Regioni, che hanno
concorso, per la parte di propria competenza, alla stesura dei provvedimenti,
il decreto 229/99 forse rappresenta un passo indietro dal punto di vista
dell’autonomia organizzativa e programmatoria ed è sicuramente indice della difficoltà
in cui si muove l’intero sistema politico, istituzioni e partiti, che non
riescono a raccordarsi e a stabilire regole e tavoli comuni di discussione.
Un esempio significativo è
rappresentato da quanto accade rispetto al finanziamento del Servizio Sanitario
Nazionale, argomento che fa parte a pieno titolo della più ampia discussione
sul federalismo.
Al riguardo, il decreto 229/99
riconferma integralmente gli articoli 11
e 12 del decreto legislativo 502/517, relativi rispettivamente al
“Finanziamento (del SSN)” e al “Fondo sanitario nazionale”.
Con una scansione di circa sei
mesi, un parallelo iter parlamentare porta all’approvazione della legge 13
maggio 1999 n. 133 “Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione
e federalismo fiscale”, a cui segue il decreto legislativo 18 febbraio 2000 n.
56 “Disposizioni in materia di federalismo fiscale, a norma dell’articolo 10
della legge 13 maggio 1999 n. 133”, che determina la soppressione nell’arco di
tre anni del Fondo sanitario nazionale, lasciando alle Regioni il compito di
finanziare direttamente il proprio Servizio Sanitario.
Oggettivamente, è difficile
pensare che il Servizio Sanitario Nazionale possa rimanere tale, senza il
corrispondente Fondo.
Tornando al decreto 229/99,
esso trova prime parziali applicazioni, prima delle elezioni regionali del 16
aprile 2000, in Toscana, Umbria e Valle
d’Aosta.
Considerazioni
e lo scenario del futuro
In un presente di difficile
decifrazione, sembra essere in ogni modo
certo che non esiste nel nostro Paese forza politica, economica e sociale
convinta ed interessata a far regredire la società sul diritto alla tutela
della salute.
Molte sono state le proposte di
modifica della Costituzione, alcune anche approvate, nessuna ha riguardato l’articolo
32.
In generale, il dibattito si
incentra soprattutto sulla individuazione e riorganizzazione dei livelli delle
competenze e delle responsabilità. In discussione, quindi, torna regolarmente
l’applicazione del “principio di sussidiarietà”, che costituisce l’elemento
fondamentale del federalismo.
Tale principio può trovare
puntuale attuazione solo in un quadro di collaborazione e di riconoscimento
(che non nega la conflittualità di merito) tra i vari livelli in cui si
articola lo Stato.
Nello specifico, la
salvaguardia del diritto alla tutela della salute non si configura in modo
statico e sembra difficile non tenerne conto.
In questi ultimi anni, nei
quali i progressi sono di una tale intensità e velocità da sorprendere la
stessa comunità scientifica internazionale, l’attuazione del diritto è impresa
ancora più ardua.
La mappatura dei geni da parte
di istituzioni pubbliche e società private, gli investimenti che aziende
multinazionali orientano per il potenziamento di laboratori specializzati nella
cosiddetta “genomica” e la ripresa e lo sviluppo delle ricerche nello spazio,
stanno gettando le basi per una straordinaria rivoluzione nella sanità e per un’ulteriore sfida nella
tutela della salute.
E’ ragionevole pensare che nei
prossimi anni saranno prodotti farmaci, tecnologie ed apparecchiature, e
portati a gestione protocolli e metodiche in grado di guarire e alleviare
malattie, specialmente croniche ed a largo spettro sociale, ed epidemie ancora
oggi terribili.
Ciò permette di ipotizzare un
eccezionale cambiamento nell’organizzazione dei servizi e la conseguente esigenza di una sempre più
stretta integrazione socio sanitaria e socio assistenziale.
E’ ragionevole pensare che
l’avverarsi di un tale scenario, molto probabile nei Paesi avanzati, molto
dubbio negli altri, comporti un notevolissimo impegno finanziario, incapace di
tollerare sprechi e sperperi, pubblici o privati che siano.
Un ulteriore elemento di
riflessione è rappresentato dall’immigrazione, che sta modificando la
composizione demografica anche nel nostro Paese. Questo fenomeno, destinato a
durare nel tempo (basti pensare che gli immigrati in Germania, in Francia e in
Gran Bretagna costituiscono il 5,5 % dell’intera popolazione, in Italia l’1,5
%), si ripercuote sull’organizzazione sociale in quanto le persone immigrate
osservano la loro religione e gli usi, i costumi e le tradizioni del loro
paese. La nostra diventa sempre più una società arcobaleno, prova ne sia che
fioriscono attività sociali ed economiche promosse e gestite da immigrati e i
servizi pubblici sono utilizzati anche da persone cosiddette extracomunitarie.
Esiste, quindi, il pericolo di
una tribalizzazione della società, con la creazione non formale ma sostanziale
di ambiti separati in settori nei quali, se ciò accadesse, si potrebbe
certamente verificare una regressione dei diritti. L’organizzazione socio
sanitaria, nella fattispecie, è tra le più esposte, con l’istruzione, a questo
pericolo.
Un terzo elemento di cui tener
conto è rappresentato dall’Europa.
Fino ad oggi, nel dibattito
sulle competenze e responsabilità in materia sanitaria non ha fatto capolino la
Comunità Europea che, allo stato e al riguardo, non esercita particolari
competenze.
L’unica istituzione europea di
rilievo con competenze riconosciute dagli Stati è rappresentata dall’Emea,
l’ufficio di brevettazione dei farmaci.
Naturalmente, se il processo
d’integrazione europea, com’è auspicabile, progredisce fino al raggiungimento
dell’unità politica, il governo dell’Europa Unita avrà senz’altro competenze
ben diverse da quelle odierne, tutte da inventare.
Il dibattito, quindi, esistente
nel nostro Paese, ma non solo, sul federalismo e sulla sussidiarietà , anche in
materia socio sanitaria, è senz’altro utile oggi a definirne i contenuti
concreti di applicazione alla nostra realtà, e domani all’intera Europa.
In questo ambito, le Regioni
possono fornire, sulla base della loro
consolidata esperienza, un fondamentale contributo di idee.
A cura di
Roberto Buttura