L’INGLESISMO, MALATTIA INFANTILE DEL TECNICISMO

 

Governance, high tech, benchmarking, restyling, off-label, manager, manegement, quality, mission, network, authority, outsourcing, cash- flow, privacy, country hospital, second opinion, know how, core business, one bets way, project financing, professional, ecc., ecc., ecc.

Una valanga di parole inglesi si è abbattuta sul Servizio Sanitario Nazionale.

Non c’è riunione, congresso, relazione, dibattito, confronto, articolo, in cui l’ascoltatore o lettore non sia subissato da un eccesso (o per dirla alla moda, un’overdose) di espressioni inglesi attraverso le quali il relatore o giornalista argomenta, in Italia ad un pubblico di italiani.

Nulla gli importa che quest’ultimo abbia conoscenza del significato della parola. Se non lo sa, argomenta in cuor suo il tecnico, è colpa sua.

Nel criticare questo andazzo, non temiamo di essere accusati di provincialismo, convinti come siamo che esso abbia origini culturali snobistiche e risponda a esigenze di autoreferenzialità tipiche degli apparati dirigenti moderni.

Questa invasione ha una sua data d’inizio, il 1995, anno nel quale le Ulss furono trasformate in aziende e poste al governo del direttore generale.

Fin dalla prima leva di questi dirigenti, accanto a persone professionalmente preparate ma sagge e consapevoli del ruolo e dell’ambito nel quale si collocavano, ci furono altre, scaltre e spregiudicate come si addice a chi è in piena carriera, che forzavano il loro ruolo approfittando peraltro del completo cambiamento del sistema politico e dell’avvento di una classe politica totalmente sprovveduta.

Tanto per fare un esempio, nel 1996 un direttore generale di un‘Ulss del Veneto si iscrisse alla Confindustria con la motivazione che così avrebbe risparmiato sella bolletta del telefono, e nessuno, tra chi ne aveva titolo, si sentì in dovere di domandare quanto meno dove credeva di essere.

Nel terreno propizio dell’aziendalizzazione, tra i cosiddetti “tecnici” crebbe rigogliosa una cultura elitaria che sotto sotto li portava e li porta a disprezzare la politica (non poteva e non può farlo apertamente per ovvi motivi) per essendone opportunisticamente proni e a creare occasioni e circuiti attraverso i quali consolidare leggende e comunicare messaggi atti ad accrescere una visione mitica della “direzione tecnica”.

Per ottenere un simile risultato, era ed è indispensabile adottare un linguaggio tipico, difficilmente comprensibile dal comune mortale, cioè quasi tutti, ma unificante e utile per il ruolo promozionale che gli veniva e viene assegnato.

Tanto per spiegarci, niente di equiparabile a quanto avviene nella comunità scientifica che regolarmente usa l’inglese per facilitare la comunicazione tra professionisti e scienziati di diversa nazionalità.

Ecco, nel nostro caso il diluvio di parole e concetti stranieri risponde all’esigenza di connotare una nuova classe che fa tutto giusto, e lo dice in inglese (meglio sarebbe dire in americano), e se qualcosa non va lo addebita in modo generico alla mancata aziedalizzazione, ecc., ecc., ecc., una nuova classe, insomma, profondamente egocentrica, malata di autoreferenzialità, indisponibile al confronto e alla critica, vestale dell’economia e dei bilanci (quando conviene).

Anche i tradizionali veicoli della comunicazione (stampa, radio, televisione) hanno assorbito molto di questa mentalità yuppista senza yuppie, per cui leggere giornali e ascoltare radio e televisione si trasforma sempre di più in un esame peraltro non sollecitato in lingue straniere.

Così,il distacco tra i tecnici, novelli “padroni del vapore”, e un’opinione pubblica fortemente disorientata, ingrandisce sempre di più.

Ciò costituisce un danno formidabile per la democrazia che si nutre di conoscenza e consapevolezza.

 

                                                                           Roberto Buttura

                                                                       
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