CRONACHETTA DI UNA SINCOPE CARDIACA
Sabato 4 settembre 2004, mentre tentavo di darmi delle
arie da gentiluomo inglese potando un
rosaio, ho avuto una sincope cardiaca fulminea e senza
prodromi.
Sotto lo sguardo stupito del mio bracco
adorato, sono tornato in me, dopo qualche tempo, lungo disteso sul prato, tutto
sporco d’erba.
Mi sono alzato, stupito almeno
quanto Brenno, e mi sono seduto su una sedia in giardino a cercare di capire
cosa mi era successo. Mi sentivo bene ed ero solo inondato da una sudorazione fredda
abbondante; non avevo dolori, dispnea, mal di testa, cardiopalmo od altro.
Sono salito in casa, facendo senza sforzo le due rampe di
scala, e mi sono seduto in poltrona dove mi sono addormentato.
In
quella posizione ho avuto una seconda sincope della
durata di qualche secondo; di questo secondo attacco ho un fuggevole ricordo:
mi sembrava di essere sotto acqua e di nuotare per riemergere verso la luce
della superficie e, nel contempo, avvertivo due pensieri che si intrecciavamo: “è un brutto sogno” e “sto male e sto per
morire”.
Anche da questa seconda sincope sono
uscito senza avvertire malesseri particolari ma, a quel punto, mia moglie,
incomprensibilmente preoccupata di restare vedova, ha telefonato al nostro medico
di famiglia.
In rapida successione questo è arrivato, mi ha visitato,
diagnosticato un soffio cardiaco importante, chiesto l’intervento del 118.
In pochi minuti è arrivata una squadra di soccorritori,
vestiti come in Emergency Room, mi hanno fatto un elettrocardiogramma
(negativo), caricato in ambulanza e trasferito al Pronto Soccorso dell’Ospedale
di Borgo Trento.
Qui l’ecografia ha evidenziato una lesione del lembo
posteriore della valvola mitralica e, così, un paio d’ore dopo la prima sincope ero già infilato in un letto dell’unità
intensiva coronaria del reparto di cardiologia bardato di un apparato che
registrava e trasmetteva in continuo la mia attività cardiaca .
In quel letto ho trascorso,
ubbidiente ed immobile, i seguenti due giorni riflettendo sulla caducità della
vita umana, monitorato come se fossi un pacco di esplosivo nonché coccolato dal
personale infermieristico che ho trovato di qualità superiore alla media.
Trasferito in reparto ho
cominciato l’iter di conferma della prima diagnosi; in un paio di giorni, ne ho
avuto la riprova e la soddisfazione di vedere che le mie coronarie (nonché
carotidi, femorali etcc) erano del tutto libere da placche.
Quest’ultimo riscontro mi ha consentito di uscire da una imbarazzante situazione etico/istituzionale: dirigo il
dipartimento di prevenzione della URSS di Verona e pontifico settimanalmente
che bisogna adottare stili di vita salubri. Non bastasse tutto ciò coordino il programma della Regione del Veneto per la
promozione dell’attività motoria e prometto a tutti i disgraziati che mi stanno
a sentire che se faranno attività fisica il loro cuore sarà salvo.
Di conseguenza, sarebbe stato uno smacco insopportabile
(dal punto di vista istituzionale ed esistenziale) se fossi risultato affetto da una coronaropatia
“voluttuaria” senza tener conto della beffa di essere
vissuto per 56 anni in modo igienicamente irreprensibile (a costo di crudeli e
smodati sacrifici sul versante edonistico voluttuario) e trovarmi poi con le
coronarie in malora.
E’ stato così deciso che sarei stato operato al più
presto.
Il giorno precedente l’intervento si è presentato nella
mia stanza un infermiere dotato di affilati rasoi e ha
cominciato a rasarmi completamente nonostante sia io che un collega (evidence
based) in visita ci siamo sforzati di argomentargli che non c’era alcuna
evidenza consolidata che la rasatura potesse diminuire il rischio di infezioni
post-intervento; non c’è stato niente da fare.
Al mio sconsolato collega non è restato da fare
nient’altro che raccogliere la massa di peli caduti, infilarli in una busta come reliquia in caso di esito infausto
dell’evento. Assieme abbiamo amaramente riflettuto sulla scarsa diffusione
delle pratiche evidence based.
Il 15
settembre, con tutte le mie cartine a posto, sono stato trasferito nel reparto
di cardiochirurgia e, fulmineamente, operato (dal Rettore dell’Università di
Verona in modo che la cosa avesse tutti i possibili crismi di
ufficialità).
Mi hanno aperto il torace (come a
un tacchino destinato alla cena di Natale), collegato ad una macchina
cuore/polmoni mentre mi aprivano anche il cuore e lavorato di taglia e cuci
sulla mia valvola ignara.
In altri termini, mi hanno prima ucciso e poi risuscitato.
Mi hanno, infine, reinfilato in torace tutte le mie frattaglie, verificato che
la valvola teneva per bene e trasferito nel reparto di terapia intensiva dove
sono stato ospitato per due notti.
Sono iniziate così le ore più pesanti da sopportare di questa
mia permanenza ospedaliera.
La mattina dopo l’intervento ho, infatti,
iniziato a tornare lentamente alla vita con una sensazione di oppressione ed
angoscia che ho, man mano, messo a fuoco.
Avevo un grosso tubo inserito in gola che mi impediva di parlare, un secondo tubo, di minor calibro,
infilato attraverso una narice, vari altri cateteri, cannule e (perfino) due
fili elettrici fuoriuscivano dalla mia superficie corporea. Provavo, infine,
una pesante sensazione di soffocamento dato dal catarro ristagnante in gola.
Senza occhiali, senza orologio in un locale illuminato
solo artificialmente, avevo perso del tutto l’orientamento temporale, mi
trovavo nell’impossibilità di parlare, vedere chiaramente ed attirare
l’attenzione del personale di assistenza ( questo tipo
di letti è privo di campanelli di chiamata).
In questo limbo angosciante l’unico conforto veniva dal
personale di assistenza e dalle informazioni che a
voce o toccandomi mi trasmettevano. Ho così imparato velocemente a distinguere
il tocco distratto od attento delle infermiere che si succedevano ed anche ad identificare
il loro profumo. Non conosco, purtroppo, il loro nome e mi sarebbe stato di conforto
saperlo.
Confesso,
inoltre, di aver avuto uno shock aggiuntivo al
risveglio vedendomi di fronte il mio amico, Direttore Amministrativo dell’ULSS
che mi ospitava, che già di per sé non è una gran bellezza, ma con la faccia
preoccupata e, vestito da palombaro com’era, faceva proprio impressione.
Fortuna che lì vicino c’era anche la santa donna che mi
sopporta (anche lei, per altro, con l’aria di assistere più ad un evento
funebre che ad una rinascita).
In ogni caso ho trascorso i primi
giorni nel reparto di cardiochirurgia lottando con la sensazione di essere
stato investito da un TIR e successivamente sono stato trasferito in una
ridente struttura convenzionata di riabilitazione dove sto cercando di
recuperare autonomia (se continua così, calcolo che mi ci vorranno 7/8 mesi per
tornare ad una vita normale).
La struttura ospita diverse decine di pazienti
operati come di valvulopatie,o trapiantati o sottoposti ad intervento di
bypass, molti sono operai e fra una seduta di ginnastica e una corsa in
cyclette, ansimando, ci raccontiamo le nostre disgrazie.
La costante di questi contatti informali che più mi ha colpito è la
mancata consapevolezza di questi utenti del nostro servizio sanitario nazionale
delle complessità e della costosità dell’intervento e dell’assistenza di cui
avevano (abbiamo) usufruito.
Aprendo un rubinetto ci si aspetta (in questa parte del
mondo) che ne esca acqua, abbondante, fresca e potabile
e, se questo non accade, ce ne sentiamo giustamente offesi ed in diritto di
protestare con il gestore dell’acquedotto.
Eppure gestire con efficacia un acquedotto è, in realtà,
un’impresa complessa e costosa che non è, in ogni caso, neanche lontanamente
comparabile con la gestione di una macchina sanitaria
che in pochi minuti da una telefonata ti prende in carico a casa tua, formula
la diagnosi, ti ripara una lesione potenzialmente mortale al cuore e ti restituisce alla vita civile
come se fossi quasi nuovo e questo senza costi aggiuntivi a quelli recuperati
dalla fiscalità generale.
Ho cercato di calcolare cosa mi sarebbe costato questo
complesso intervento sanitario se invece di essere un
56enne italiano avessi avuto la ventura (Deus avertat !!! ) di essere
nato negli States (Stati Uniti - punto
di eccellenza delle tecnologie mediche
internazionali ma dove 44 milioni di cittadini sono privi di assistenza
sanitaria) ed ho chiesto a qualche amico che frequenta spesso l’altra sponda
dell’Atlantico. A spanne il tutto mi sarebbe costato più di 200.000 euro e l’unica cosa che avrei
potuto fare se non fossi stato robustamente assicurato sarebbe stata
quella di vendermi la casa.
Ho così cominciato a pensare che qualcuno di questi
ragionamenti ai nostri pazienti che vengono in ambulatorio e protestano
per i troppo lunghi tempi di attesa per gli esami, favoleggiando di miracoli
ottenibili privatizzando l’intero sistema, forse dovremmo cominciare a farli.
Massimo Valsecchi