GLI IMMIGRATI E IL FINANZIAMENTO DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
Il
finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale per il 2004 e la successiva
ripartizione del Fondo sanitario interregionale (che ha sostituito il Fondo
sanitario nazionale) hanno offerto un’ulteriore
occasione per assistere ad un incomprensibile dibattito prima tra Stato e
Regioni e poi tra le Regioni.
Come si
sa, la spesa sanitaria pubblica italiana si aggira attorno al 6 per cento del
prodotto interno lordo (Pil), ben al di sotto di altri
paesi industrializzati, e anche la spesa cosiddetta privata è contenuta al di
sotto del 2,4 per cento, quindi altrettanto virtuosa comparata con i medesimi
paesi.
Oltre a
ciò si deve rammentare che nell’anno 1999 l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS), a conclusione di un lavoro di confronto
su complessi parametri, aveva annunciato che il Paese in possesso della
migliore organizzazione per la tutela della salute era la Francia seguita dalla
tanto bistrattata Italia. Gli Stati Uniti, tanto per
citare un paese che i nostri politici conservatori vorrebbero imitare, si
piazzavano al posti n. 37 della graduatoria. A scanso di equivoci,
è giusto sottolineare che l’OMS non è un covo di pericolosi sovversivi, ma
un’organizzazione, di cui socio finanziatore è anche la Banca Mondiale,
accusata più volte al pari di quest’ultima di tutelare gli interessi di
ristretti circoli finanziari statunitensi, operando all’interno di una cultura
e di una logica di mercato, anziché quelli della ben più ampia popolazione
mondiale.
Detto
questo per ricordare che la nostra situazione non è catastrofica come viene a
volte dipinta, ritorniamo ad occuparci del nostro Servizio sanitario sul cui
funzionamento pesa comunque una sottostima del
fabbisogno finanziario, oltre ad una ben più grave mancanza di programmazione e
di progettualità, queste sì catastrofiche, accompagnate dalla negazione degli
investimenti indispensabili. L’ultima grande operazione
di questo tipo si è verificata con l’articolo 20 della legge finanziaria
67/1988 quando furono stanziati 30.000 miliardi di lire da spendere in dieci
anni per ammodernare e riorganizzare il Servizio sanitario Nazionale.
Il
famoso accordo dell’8 agosto 2001 tra il Governo (Tremonti) e le Regioni che avrebbe dovuto chiudere definitivamente il contenzioso
ricorrente sulla sottostima del fabbisogno, non ha retto lo spazio di un
mattino. Dalla discussione in atto, è possibile ricavare che
i principali imputati del costante, accentuato sforamento sono due: il
cosiddetto federalismo sanitario inaugurato con il decreto 56/2000 e i
contratti di lavoro.
Fatto
sta che l’unica cosa sulla quale esiste certezza da parte dei
nostri governanti è che nessuno è in grado di stabilire l’entità delle
spese accumulate dalle singoli Regioni e le stesse hanno più di qualche
difficoltà a capire la situazione finanziaria delle proprie aziende sanitarie.
L’inseguimento ebete al mito federalista ed autonomista si è spinto fino ad
eliminare la legislazione nazionale e regionale sui controlli che costituiscono volente o nolente la differenza tra ambito
pubblico e ambito privato.
Come è immaginabile la discussione tra Stato e Regioni ha
avuto caratteristiche tragicomiche di totale incomprensione delle reciproche
posizioni e ragioni. Tremonti riteneva congrua la somma stabilita per il
finanziamento del Fondo, accusando le Regioni di non aver posto in atto molte
delle manovre previste dall’accordo 8 agosto 2001, le Regioni accusavano lo
Stato di aver sovraccaricato con la propria
legislazione i loro compiti senza prevedere un adeguato accompagnamento
economico. Uno stallo completo, insomma, fino a quando
la cosiddetta “finanza creativa” è riuscita a compiere un nuovo miracolo,
trasformando ciò che era stato considerato un peso, se non di peggio, in una
“risorsa”.
L’immigrato,
cioè l’entità sulla quale più di qualcuno ci ha
speculato sopra costruendo le proprie fortune elettorali, è diventato ad un
tratto di fondamentale importanza ai fini del finanziamento del Servizio
Sanitario Nazionale, in particolare colui che ha sanato la posizione in base
alla legge Bossi-Fini.
Tutte le
Regioni, dalle Alpi a Capo Passero, hanno nominato l’immigrato simbolo
del funzionamento della sanità. Inconsapevole, egli è passato
da soggetto negativo a baluardo del diritto alla tutela della salute, senza
nemmeno transitare attraverso il riconoscimento come persona.
Sull’immigrato
le Regioni sono andate al combattimento corpo a corpo nei confronti dello Stato
e, una volta passata la linea e acquisiti i baiocchi, sempre in nome dell’immigrato
hanno ferocemente litigato tra loro. Non è finita qui,
perché successivamente altra battaglia all’interno di
ogni singola Regione, con l’immigrato ancora una volta protagonista, per
l’ulteriore ripartizione (incluso il correttivo immigrati) tra le
proprie aziende sanitarie.
Allo
stato, non risulta che alcuno dei protagonisti di
questa tipica vicenda “all’italiana” abbia provato o stia provando un minimo di
vergogna per l’accaduto.
Nessuno,
infatti, ha posto obiezioni di carattere etico –che pure ci sono e grandi come
una casa- a un tale modo di procedere.
Nessuno
ha posto questioni di merito come ad esempio il fatto che, essendo il nostro
Servizio Sanitario Nazionale finanziato attraverso la fiscalità generale, tutti
coloro che lavorano in modo regolare contribuiscono
per la loro capacità fiscale a determinarne il suo funzionamento,
indipendentemente dal loro status civile.
Ciò
significa che se il fabbisogno è sottostimato va fatta una battaglia per il suo
adeguamento, senza rifugiarsi dietro foglie di fico che non servono a
nascondere le vergogne ma ad esaltarle.